martedì 23 dicembre 2014

I wish you...

Christmas Card 2014 - Monica Auriemma-

A volte le cose che ci spaventano di più, come il tempo che passa, i cambiamenti, le novità, sono quelle che ci portano i regali migliori.

Non sapevo cosa augurarmi e augurarvi quest’anno, allora ho deciso: voglio lasciare che questo 2015 mi sorprenda.

Auguri!

mercoledì 10 dicembre 2014

Ho imparato a Guidare a Napoli

Illustrazione da "La Bottega dei Sogni Perduti"-monicauriemma
Illustrazione da "La Bottega dei Sogni Perduti" Lavieri Ed. Monica Auriemma-
Una delle tante belle sorprese che ho trovato in UK è che il giallo del semaforo scatta due volte: una volta prima del rosso, un’altra prima del verde. Semplice ma a mio parere geniale.

Da automobilista penso al semaforo come fonte di grandissimo stress: occhio fisso alla luce che il verde non ti colga di sorpresa, polpacci in tensione pronti allo scatto sull’acceleratore, a volte sgasate inutili per evitare di spegnere il motore, che nell’attimo stesso in cui scatta il verde partono i clacson di quelli che stanno dietro (pure loro tutti stressati). 
Ripeti questo ad ogni semaforo e pensa quanta salute guadagneresti se avessi un giallo che ti avverte per prepararti a ripartire.

Non so perché questa pratica sia assente in Italia. Forse abbassare il livello di stress di chi guida non è nelle priorità del nostro codice, forse all’automobilista italiano medio piace sentirsi pilota di Formula 1, gli piace essere sempre in tensione, pronto allo scatto, all’attacco.

Confesso che a me guidare non è mai piaciuto. Ho preso la patente tardissimo e con riluttanza, solo per necessità. 
Per di più ho imparato a guidare a Napoli, e se qualcuno si sta chiedendo: “Perché, che differenza fa?” risponderò che equivale più o meno a: sono stata nella legione straniera, sono sopravvissuta nella Giungla, ho fatto la guerra, una cosa del genere. 
Guidare per le strade di Napoli dovrebbe essere riconosciuta come “pratica altamente usurante” , anche se non lo fai per lavoro, e consentire di anticipare la pensione, diciamo, un anno ogni dieci di guida. Parlo sul serio.

Non è che ci tenga particolarmente a parlar male della mia terra (ho visto che la situazione in altre città italiane, come Roma per esempio, non è certo rosea), ma è il posto dove sono cresciuta e che conosco meglio, io so per certo che il codice della strada a Napoli ha altre regole, non scritte, magari contrarie alla legge, eppure in qualche modo funzionali.

Partiamo dal fatto che la circolazione è difficilissima, causa la morfologia del territorio, la scarsità di mezzi pubblici e lo stato delle strade. La situazione in centro è in qualche modo migliorata negli anni con l’introduzione delle ZTL e di un po’ di rotonde ma, insomma, è una città in perenne emergenza. 
Per cui il cittadino sente il dovere di “interpretare” con una sorta di furbo buonsenso quelle che altrove sono norme tassative. 
Voglio dire che la regola a Napoli può essere infranta, col beneplacito di tutti, se devi risolvere un problema, e siccome è difficile che non ci siano problemi, la cosa avviene piuttosto spesso. 
Se c'è un problema non si aspetta l'autorità (vigili, polizia, ecc...) si parte dal presupposto che l'autorità sia assente, o incapace, e ci si organizza da soli. Ho visto coi miei occhi autisti di autobus  indire piccole assemblee con i passeggeri, per trovare strade alternative anche se fuori percorso, in caso di particolari ingorghi.

I colori del semaforo non vengono percepiti come comandi, piuttosto come consigli (questa devo averla sentita da qualche parte, mi scuso se ho rubato ma rende bene l’idea).

Il rosso a Napoli ha delle sfumature. 
C’è il rosso fuoco, perentorio, quello di  strade a scorrimento veloce,  incroci trafficati, lì non c’è storia, ti devi fermare, il napoletano non è un kamikaze. 
Poi ci sono quei rossi un po’ annacquati, sai che la strada che incroci è poco trafficata, fermati un po’, dai un’occhiata, ma se non viene nessuno, non stare a perdere tempo, vai! 
E poi ci sono i rossi quasi gialli, quelli “inutili”, che magari stanno dopo vicoletti praticamente deserti, tu te ne accorgi, se non arriva nessuno, che necessità c’è di fermarsi? 
Ho provato di persona la sgradevole sensazione dello strombazzare di clacson dietro di me quando ero ferma ad uno di questi. A volte l’ho fatto apposta, sono rimasta ferma lì, inchiodata al semaforo rosso, semplicemente perché volevo “sentirmi libera” di rispettare una regola che tutti ignoravano. 
D’altro canto anche i verdi hanno le loro sfumature. 
Difficile che un napoletano passi col verde a cuor leggero. Non si fida. Lo sa che ci potrebbe essere qualcuno che dall’altro lato sta pensando di buttarsi.

I sensi unici non sono quasi mai veramente unici, diciamo che sono sensi unici alternati. 
A volte sono stradine che ti permetterebbero di tagliare un percorso accorciando di parecchio ed evitando il traffico, e tu che fai? Non ci provi? Lo fanno tutti! Spesso l’ho fatto anch’io (col cuore in gola). 
Il bello è che dall’altro lato lo sanno. Quelli che procedono nel senso giusto si armano di pazienza e sanno che ogni tanto devono rallentare o accostare al marciapiede per far passare i “fuorilegge”. Tanto capiterà anche a loro di vedersi ricambiato il favore prima o poi. 
Amici mi hanno raccontato che chiedendo indicazioni ad un vigile si sentirono rispondere: “La strada giusta è di là, ma vi infilate in un ingorgo, ci potreste impiegare un’ora, di qua c’è un vicoletto che vi fa sbucare dall’altro lato, sarebbe senso unico… facciamo così: io mi giro dall’altra parte e voi passate”

Il pedone a Napoli non ha la precedenza, MAI.
E lui lo sa (se è napoletano). E se non lo è? Conoscete il vecchio detto: Vedi Napoli e poi muori? Beh, potrebbe avere più di un significato…
Ci si allena da bambini, imparare ad attraversare la strada è stato un grande momento di passaggio della mia infanzia. 
Come una di quelle prove d’iniziazione delle tribù africane: dimostri il tuo coraggio e la tua prontezza di riflessi. 
Ignorando le strisce pedonali, che tanto non verranno prese in considerazione da nessuno, si attraversa quando e dove si può, spesso invocando la benedizione di forze ultraterrene. 
Il pedone napoletano non può rilassarsi, ruba quel momento di vuoto di traffico, impara a calcolare i tempi e la velocità dei veicoli e l’automobilista d’altra parte si aspetta sempre che qualcuno sbuchi all’improvviso ed è pronto a frenare. 
Il napoletano ha un'insofferenza profonda, quasi atavica, alle regole, le sente come imposizioni: Io non voglio attraversare dove mi dici tu, dov’è stabilito. Voglio passare dove mi pare. So che rischio la vita, ma la vita è mia e me la gestisco io! 

Da quando sono qui a Londra continuo a stupirmi del fatto che appena mi avvicino alle strisce, preparata tranquillamente ad aspettare il passaggio di due o tre auto, il veicolo più vicino immancabilmente si fermi per farmi passare, a volte si ferma PRIMA che io capisca di dover attraversare, no, dico, che fai? Sei telepatico? 
Il parco dove corro è tagliato da alcune strade, con strisce pedonali fuori ai cancelli, gli automobilisti si fermano a prescindere, quando corro non sono neanche costretta a rallentare per attraversare.
Sempre felicemente incredula, faccio un cenno di ringraziamento con la mano. Mi sento in un altro mondo.

D’altra parte anch’io da pedone devo rispettare i semafori e gli attraversamenti (perchè qui mi concedo il lusso di non guidare, che coi mezzi pubblici mi sposto dove voglio, e comunque ho una fifa blu perchè si tiene la sinistra invece della destra). 
A volte il vecchio istinto vorrebbe riemergere. C’è una strada sotto casa che dista in linea d’aria pochi metri, con pochi passi sarei dall’altro lato, solo che è ad un incrocio di cinque strade, ed io devo fare un percorso a U passando ben 4 semafori per arrivarci. 
Nel profondo mi ribello, la mia mente non comprende perché io debba fare tanta strada e interrompere il cammino tante volte per andare di fronte… ci ho anche provato una volta a passare “di traverso” è stato impossibile, mi devo rassegnare a rispettare la legge, acc...

Ovviamente, così come ci sono anche automobilisti disciplinati a Napoli, qui ci sono i trasgressori, e le conseguenti multe. 
Un giorno il mio compagno, che guida per lavoro, si è visto recapitare una multa per eccesso di velocità,  accompagnata da una lettera. 
Gli si diceva Scegli: la multa la paghi comunque ma puoi perdere punti sulla patente o venire ad un corso sulla sicurezza stradale
Oh, no… che cos’è, una specie di gogna? Verrai aspramente redarguito e marchiato d’infamia come indisciplinato? 
Comunque, pur di non perdere punti è andato. 
Alle presentazioni sembrava uno di quei corsi di auto-aiuto, tipo: ciao a tutti, sono Mark e ho investito un pedone… un applauso d’incoraggiamento a Mark… 
Poi pare che abbia avuto informazioni utili e imparato parecchio su come gestire il mezzo in situazioni difficili, insomma, alla fine gli è piaciuto!

Penso a come sarebbe bella una cosa del genere anche a Napoli… ma forse il napoletano medio pur di non sottoporsi all’onta di sentirsi dire quello che deve fare, perderebbe i punti (e poi troverebbe un modo non proprio legale di riguadagnarli). Sigh.


Questo è l’inizio di “Così Parlò Bellavista” film di 30 anni fa, col famoso “ingorgo a croce uncinata”

E, per Par Condicio, direttamente da Milano, Gioele Dix: L’automobilista ...zzato come una bestia:


mercoledì 3 dicembre 2014

Shang Dynasty (primo: capire il Brief)

illustrazione-pittura-cinese-Wordsmith-monicauriemma
Shang Dynasty-Wordsmith-family-detail-monicauriemma

Avviso a tutti gli illustratori: Il passaggio dall'editoria italiana a quella inglese può essere un trauma, soprattutto se devi lavorare per la scolastica (e non sei abituato, come me).

Prendo ad esempio uno dei miei primi lavori inglesi: due illustrazioni riguardanti la Dinastia Shang per un e-book dal titolo: “Wordsmith”,  PearsonEducation.

Il primo grosso problema è il Brief (o LA Brief, come dico io, tanto in inglese è uguale…), cioè la descrizione del lavoro, che è una contraddizione in termini perché Brief viene da BREVE, e in molti casi è più lunga del testo del libro in questione.

Io vengo da un mondo in cui ti viene dato il testo, le misure, e al massimo un in bocca al lupo (lasciandoti a volte in balìa di dubbi amletici sull’interpretazione) e mi ritrovo qui dove ti dicono che tipo di paesaggio vogliono, gli oggetti, gli animali ,quanto è verde l’erba, chi c’è, di che età, razza ed estrazione sociale, cosa sta facendo, come è vestito e magari dov’era stato il giorno prima e come si chiama il suo cane… è spiazzante!

Tanta precisione nelle richieste ti obbliga ad un’accurata ricerca e documentazione visiva, ma, in questo caso, hai beccato la Dinastia Shang (1600-1000 a.C.), così antica che le immagini sono pochissime e così “sfigata” che nessuno si è degnato di farci un film, che so, pugnali volanti, tigri e dragoni, quella roba lì. 
Passi le ore a interrogarti sulla forma dei cesti di vimini di 3000 anni or sono, e non è piacevole.

Comunque, immergersi in un altro luogo e in un altro tempo è sempre un’avventura straordinaria per me, è quasi la parte più bella del lavoro, sei travolta da stimoli visivi, informazioni, e più cerchi e più trovi, anche se in questo caso i problemi legati al poco tempo a disposizione e al fatto che molti dei miei libri di riferimento fossero ancora in Italia, mi hanno fatto perdere un po’ la bussola.


Ecco il prodotto delle mie fatiche:

Illustrazione-pittura cinese-monicauriemma
Shang Dynasty-Wordsmith-family-monicauriemma

La prima tavola doveva imitare una pittura cinese antica, con un nucleo familiare in un interno, genitori, nonni, zii e pargoli di varie età, in una precisa posizione gerarchica, lasciando alcuni spazi per il testo, dentro una cornice di bronzo stile Shang.

Per capire alcuni passaggi del Brief ero costretta ad affidarmi a Google Traduttore che non solo si ostina ad ignorare il genitivo sassone, ma, ormai ne sono certa, fa uso massiccio di droghe: “a narrow-cuffed tunic” viene tradotto come “una stretta ammanettato tunica” e “long hair  should be wearing it up in buns” è tradotto come “capelli lunghi dovrebbero essere lo indossa in panini”
Ma come vestivano strano questi cinesi, tuniche con le manette e panini sulla testa? 
(le manette in realtà sono risvolti o polsini e i panini sono shignon, ma mi ci è voluto un po’ per capirlo…)

Imitare la pittura cinese, è una parola! E’ un meraviglioso universo parallelo: dimentica la prospettiva come la conosci, la tridimensionalità e il chiaroscuro, lavora di sintesi, di decorazioni, non mettere le ombre…  ci sono riuscita solo in piccola parte, cercando volti, pose, acconciature, ho preso qualche scivolone, il risultato è un evidente compromesso, ma, insomma, non è malvagio.

I clienti si sono detti soddisfatti: “the frame really looks like it's made of bronze!”.  

Illustrazione-pittura cinese-monicauriemma
Shang Dynasty-Wordsmith-family-detail-monicauriemma
La cornice è in realtà la somma di un disegno a matita che imita una decorazione Shang (l’unica cosa che non manca alla documentazione del periodo sono i vasi in bronzo, vasi, vasi, tanti vasi…), una texture fatta a tempera acrilica su vecchia tavoletta di legno, qualche ombreggiatura e il mio genio creativo, of course…  ;-)

La seconda tavola è una scena di campagna, che mostra coltivatori di miglio al lavoro, padre e figlio, con cani, pecore, un aratro in pietra tirato da buoi, una capanna e in primo piano un baco da seta, il tutto condito da un testo piuttosto fitto.
Shang Dynasty-Wordsmith-farm-scene-monicauriemma
Ecco le domande che ti assalgono: che forma avranno le scarpe di paglia di un contadino Shang? E l’aratro di pietra tirato da buoi sarà accompagnato da uno o più uomini? Com’erano le capanne 3000 anni fa? E le pecore cinesi? Siamo sicuri che fossero come quelle che conosciamo noi? (Non lo sapevate? Sapevatelo!)

Illustrazione-Shang-Dynasty-scena di campagna-particolare-monicauriemma
Shang Dynasty-Wordsmith-farm-scene-detail-monicauriemma
Per gli abiti il Brief mi chiedeva: “loose cotton shirts (made from cotton) and trousers made from hemp with shoes made from straw”. E mi raccomando, le bluse in cotone, i pantaloni in canapa e le scarpe in paglia, che se mi accorgo che hai fatto le bluse in canapa e i pantaloni in cotone sono guai!

Ragazzi, forse non sapete con chi avete a che fare: fin da quando lavoravo in teatro avevo l’abitudine di salvare dalla distruzione piccoli scampoli di stoffa di ogni tipo, tutti scannerizzati e finiti in archivio. 
Voi volete la canapa? E Monica vi da la canapa. Voi volete il cotone? E Monica vi da il cotone! 

Comunque è andata, dopo un paio di discussioni via mail sulla lunghezza dei capelli del ragazzo, ce l’abbiamo fatta, tutti contenti, illustratrice stremata ma appagata e perfino pagata.

P.s. Altro consiglio per gli illustratori italiani: 
non vi azzardate a nominare i files con dei titoli fatti di parole comprensibili, tipo “Farmer Scene” o “Family Scene”, come stupidamente avevo fatto io. 
Qua è tutto regolato e codificato, le illustrazioni sono centinaia, da vari illustratori, e bisogna avere un codice di identificazione (e poi gli inglesi se non usano abbreviazioni si sentono male…) perciò le mie tavole si intitolano, molto poeticamente: R3_Yr4Shang_S6 e R3_Yr4Shang_S7 

martedì 25 novembre 2014

My Personal Flash Flood

Illustration-Salgari-monicauriemma-Sinnos
Illustrazione per l'Assaggenda Sinnos 2012-Salgari: Maelstrom-monicauriemma

Chi vive a Londra deve per forza familiarizzare con i centinaia di modi per dire pioggia, alcuni piuttosto evocativi: liquid sunshine (quando piove col sole) , shower, solid rain, e i vari storm, tempeste, temporali…
Confesso però che flash flood (improvviso alluvione) non l’avevo mai sentito. E neanche mai vissuto. 
Finora.

Erano le tre di un venerdì pomeriggio di Settembre, quando sento arrivare la pioggia. 
Niente di strano, ovviamente, ma il fracasso dei tuoni è assordante, cosa insolita (qui la pioggia è frequentissima, ma i temporali con tuoni e fulmini, piuttosto rari), la pioggia cade con un’intensità e un rumore che mi stordisce. 
Pochi minuti e arriva la grandine, più che altro una sassaiola. 
Dai vetri do un’occhiata al minuscolo cortile sul retro, circondato dai muri delle abitazioni circostanti, come ce ne sono tanti nelle case vittoriane, al di sotto del livello strada, comunicante con la cucina tramite una porta e un piccolo gradino.
Oh, oh, il tombino pare non riesca a contenere tanta acqua e il cortiletto si sta trasformando in una vasca… di fango… 
Il rumore è sempre più assordante, il livello sale. 
Il cuore accelera. 
Tra il pian terreno e la cucina ci sono sei gradini, li scendo con un paio di asciugamani in mano, forse dovrei metterli a protezione della port… troppo tardi, l’acqua, scavalca il gradino esterno e invade la cucina. 
Il livello sale ad una velocità impressionante. Getto (inutilmente) gli asciugamani a terra e mi vivo il mio primo flash flood.

E’ in questi momenti che di solito do prova del mio self control: “CHE DEVO FARE, CHE DEVO FARE, CHE DEVO FAAAARE???!!!”
Del mio profondo legame con la natura: “E DAI, ADESSO BASTA, ADESSO SMETTILA! TI PREGO, BASTAAA!”
Della mia grande spiritualità: “NAM MYO HO RENGE KYO...OODDÌODDÌODDDÌO! MAMMMAMIIIA!”, (buddismo,cristianesimo e culto dei defunti, perfetto sincretismo religioso)

Tento di chiamare il mio compagno Danilo, in strada di ritorno dal lavoro, non c’è linea.
Nella mia mente offuscata si fa strada un concetto elementare: elettricità+acqua= no buono.
Corro al piano di sopra a spegnere il pc.
Il frigo e la lavatrice sono completamente immersi e in corrente, e io non posso arrivare alle prese se non guadando. E non riesco a mettere a fuoco dove diavolo sia l’interruttore generale della luce.

Qual è il numero del pronto intervento? Il 911? No, ho visto troppi film americani… ah è il 999… provo, la linea sembra tornata, qualcuno mi risponde. 
“GOOD AFTERNOON” (perché io sono una personcina educata. Terrorizzata, ma educata) 
“MY-KITCHEN-UNDER-WATER”, sono le uniche parole di senso compiuto che mi escono. L’operatrice mi dice qualcosa che ovviamente non capisco, dopo una serie di sorry, sorry,  intuisco che vuole l’indirizzo, ho un attimo di crollo quando mi chiede di farle lo spelling… no, lo spelling no, ti prego! B…B…BRAVO…E…ECO…N…N…NOVEMBER, menomale che il nome della mia strada è breve…
Stiamo ricevendo tantissime chiamate dalla sua zona e abbiamo tutte le squadre impegnate…” “Che devo fare? Io non so che devo fare!”supplico. L’acqua è circa venti centimetri, “Metta degli asciugamani”, già fatto cara, ho tutto il corredo bagno che fluttua. 
Per la verità c’è parecchia roba che fluttua, tappetini, i contenitori dell’immondizia, il cesto con le verdure, tutti in giro a galleggiare, come suppellettili di una nave che affonda.

“Capitano! Imbarchiamo acqua dalla stiva!!!” avrei tanto voluto recitare la parte dell’ufficiale/eroe nei film catastrofici (quello che prevede il pericolo ma nessuno lo ascolta a causa del suo passato da alcolista o di problemi personali, che altrimenti il film non va avanti), purtroppo non c’è nessun capitano che prenda una decisione, nessuno a cui rivolgermi, nessuno…

In fondo non sono in pericolo di vita, la porta è libera e anche se fuori diluvia io posso comunque uscire. 
Cerco di calmarmi, inutilmente, infilo l’impermeabile di Danilo, tre volte la mia taglia, sudo, cammino avanti e indietro, penso all’elettricità e agli strani rumori metallici che sento, cigolii e stridore come di motorini sotto sforzo, sempre più forti, sempre più sinistri, penso a corti circuiti, incendi, crolli… e MORIREEEEMOTUUUUTTIIIIII! 
L’acqua nera supera il primo gradino.

Riesco a comunicare con Danilo, bloccato nel traffico impazzito, mi indica dov’è l’interruttore generale, che in pratica sta quasi sotto al soffitto (grazie, eh… magari un posto un po’ più accessibile?) mi arrampico sullo scaletto che prima ho tirato via dal sottoscala per salvarlo dall’acqua, insieme al cesto della biancheria sporca, ma non mi chiedete perché ho salvato solo queste due cose perché non lo so… stacco finalmente la corrente.

Lo stridore finisce. 
Pian piano anche il rumore esterno cala, la pioggia smette. 
Infilo gli stivali  e corro a comprare un paio di secchi per tirar via “il lago” dalla cucina. Il tutto è durato una mezz'oretta, non di più. Un vero “Flash” flood.

Fuori, atmosfera post-diluvio universale, dietro l’angolo di casa si è formato un enorme lago, polizia e vigili del fuoco, nastri segnaletici a chiudere la mia strada, traffico interrotto, autobus impantanati, la gente si aggira fradicia e smarrita: “Umbelievable!”; ci scambiamo parole di stupore e conforto tra vicini, volevo dire che la mia cucina era “completely flooded” (allagata), e mi esce “completely  floated”, completamente “galleggiata”, beh… sempre di acqua si tratta, no?

Ritorna il sole, fa quasi caldo. Trascorro le successive tre ore a tirar via acqua, strizzo gli asciugamani nei secchi e li svuoto nel tombino fuori casa. 
Intanto arriva Danilo, a sera inoltrata si fa la conta dei danni, abbiamo la lavatrice fuori uso (dovremo cambiare il motore) ma il frigo è salvo. Perdiamo tappetini e alcuni oggetti ma niente di grave. 
Siamo stati fortunati, un nostro amico è stato spostato in un albergo e per parecchio non potrà rientrare in casa.

Scoprirò che l’alluvione è stato talmente circoscritto da interessare solo il mio quartiere.

Mi sorge un dubbio: a causa di una consegna a brevissimo che il cliente non aveva voluto spostare, il giorno prima avevo scritto alla mia agente che mi auguravo almeno brutto tempo nel weekend dovendo restare chiusa in casa a disegnare. 
La prossima volta mi taglio le manine, piuttosto.

Qui c'è un articolo dell'Evening Standard a proposito.


mercoledì 19 novembre 2014

Cara Burocrazia Italiana,

disegno-burocrazia-monicauriemma
Mi manchi molto sai, 
mi mancano le bollette gonfiate da imposte e contributi, mi manca il tuo linguaggio oscuro, le scritte piccole piccole in fondo ai documenti, le file agli uffici, le giornate di lavoro perse. 
Mi manca l’Iva, la ritenuta d’acconto e soprattutto le marche da bollo.  
Mi manca l’acconto Irpef su presunti futuri guadagni, e quelle inconfondibili buste con una scritta bianca su campo azzurro: CARTELLA DI PAGAMENTO.
Quanta nostalgia del furto d’identità che mi ha fatto trascorrere in allegria un paio d’anni tra denunce e plichi di fotocopie, da te a me, da me all’avvocato e dall’avvocato a te (tutte in bollo, s’intende…)

Dove vivo ora è tutto tristemente normale… 
Qui non conoscono la sofferenza necessaria al raggiungimento dello scopo, gli inglesi non sanno che quelli che credono i propri “diritti” sono in realtà benevole elargizioni dall’alto, incerte, come la grazia di una divinità. Tu me lo hai insegnato: la grazia richiede preghiera, sacrificio, dedizione (e qualche volta una mazzetta), non puoi ottenerla senza sforzo. 
Che valore daranno queste persone a cose come pagamenti, assunzione di personale, avvio di un’attività in proprio, certificati, rimborsi, se la loro realizzazione non viene continuamente ostacolata, dilazionata, allontanata nel tempo? Come faranno ad apprezzarle davvero?

Ti racconto una cosa scandalosa: dopo la mia prima dichiarazione dei redditi in UK avevo diritto ad un rimborso e… mi è arrivato! Dopo 10 giorni dalla domanda! E direttamente sul mio conto! 
Eh, sì, la tua collega Britannica  se la sbriga con un click. Che stolta! Non capisce che così si perde tutta la suspense (arriveranno? non arriveranno?), non ha imparato niente dell’animo umano: Se tu fai passare almeno un paio d’anni (come minimo), il destinatario non conterà più su quel danaro, così quando finalmente arriverà sarà una sorpresa! Una festa!

Ricordo i bei tempi in cui mi rendevi tutto più difficile e prezioso. 
Mica mandavi i soldi sul conto? Tu volevi che li toccassi con mano, volevi che io assaporassi la concretezza di quel dono, che mi prendessi una giornata di festa, e così mi mandavi una letterina a casa che mi intimava di recarmi (io, solo io, personalmente io) a fare una bella fila in un ufficio postale, entro e non oltre una certa data, per vergare di mio pugno la quietanza, e se io non ci fossi riuscita per qualche motivo, te li saresti ripresi! Così non avrei mai potuto dimenticare il regalo che mi facevi restituendomi i MIEI soldi.

Negli ultimi tempi devi aver capito che sentivo la tua mancanza, e così mi hai fatto una sorpresa: ora che ho la residenza inglese, quei pochi italiani rimasti che vorrebbero pagarmi non lo fanno, perché tu gli hai detto di non fidarsi. Gli hai detto di non credere che io pago le tasse in UK. 
Non basta un’autocertificazione, l’iscrizione all’AIRE, il certificato di residenza, l’UTR, troppo facile! 
Quella scema di BB (Burocrazia Britannica) ha un form online che mi permette gratuitamente in una ventina di giorni di ottenere un certificato di residenza fiscale, ma lei è stupida si sa, non sa che tu lo fai per il mio bene. 
Perciò hai suggerito in un orecchio a qualcuno dei miei editori di non fidarsi nemmeno di questo! 
Ed ecco documenti da compilare a mano in bella calligrafia e spedire in giro per l’Europa, magari sigillati con la ceralacca, per stare ancora molti, molti mesi a pensare l’una all’altra.

Ed io ti penso sai, non hai idea di quanto ti penso!

Ti dedico un antico auspicio: Puozze passa’ nu guaio, che in lingua celtica vuol dire “che tu possa attraversare la sofferenza e purificarti.”

Sinceramente tua


Monica


mercoledì 12 novembre 2014

Come Rovinare Un Possibile Post

OCCASIONE

Una imperdibile conferenza al South Bank Centre dal titolo: In conversation with Oliver Jeffers& Quentin Blake, praticamente il Paolo Nutini e il Paul McCartney dell’illustrazione, forse il paragone non è calzante ma, insomma, due vere Star.

Sir Quentin Blake (sì, Sir, perché qui, i grandi illustratori li fanno cavalieri…) nato nel 1932, ha cominciato negli anni ’50 e illustrato tutto l’illustrabile, dai racconti di Roald Dahl fino al recente ciclo di grandi pareti per vari ospedali, ha ricevuto profluvi di premi ed infine ha collaborato alla fondazione di The House of Illustration , grande museo dedicato all’illustrazione che ha aperto da pochi mesi a Londra
A lui la mia gratitudine, ammirazione e massimo rispetto.

Oliver Jeffers, classe 1977 (un pargoletto al confronto, infatti era piuttosto emozionato…), nato in Australia, cresciuto in Irlanda, attualmente di base a New York, ha spopolato negli ultimi anni con vere delizie per gli occhi come The Incredibile Book Eating Boy, How to Catch a Star e vari altri, ha anche collaborato al video degli U2 Ordinary Love
Dal suo bellissimo Lost and Found  è stato tratto anche un cartoon di cui questo è il trailer.


INGREDIENTI

Taccuino per prendere appunti.
Telefonino per registrare.
Sforzo, concentrazione e buona volontà per capire tutto nonostante il mio inglese (sono sicura che ne uscirà un ottimo post in cui potrò rivelare i segreti dei grandi illustratori e dire: io c’ero!)

COSTO

10£ (più trasporto). Considerando che praticamente spendo 5£ per artista, è un’occasione.

PROCEDIMENTO

Sedersi buona buona al tuo posto in decimillesima fila dell’immensa Queen Elizabeth Hall e scoprire che:
1) Hai il taccuino ma non la penna. I tuoi amici sono sparsi in altre zone della sala e la tua vicina di posto non ha una penna in più.
2) la batteria del telefonino non è abbastanza carica per registrare.
3) Cosa più importante, hai dimenticato gli occhiali per la miopia che ti ha colto negli ultimi anni (perché sei anziana e non vuoi prenderne atto).

RISULTATO

C'erano due persone (più la moderatrice) dai contorni sfocati e sbrilluccicanti sotto le luci, che se incontrassi domani sotto casa non riconosceresti, che parlavano di cose che non hai capito bene.

Hai afferrato che:
uno dei miti di Quentin Blake è Honoré Daumier,
tra i preferiti di Oliver Jeffers c’è anche Charles Shultz (quello di Charlie Brown, abbiamo una cosa in comune!),
tutti e due hanno uno studio magnifico e invidiabile,
praticamente non usano il computer (sic…)
hanno un ottimo rapporto con gli editori (e volevo vedere che dicevano il contrario…).
Tutto qui.
Ah, c’erano anche una serie di immagini, avvolte nella nebbia.

Sei la schifezza, della schifezza, della schifezza di tutti i bloggers (o blogger, visto che scrivo in italiano…mah…).


Se volete un vero resoconto andate qui: oppure qui

mercoledì 22 ottobre 2014

C’era Una Volta Un Re…

C’era una volta un re che un migliaio di anni fa regnò meno di un anno, durante il quale non fece altro che correre da una parte all’altra per difendersi da invasori, finché non morì con una freccia infilata in un occhio. 
Forse se fosse stato italiano sarebbe solo un nome nei libri di storia, qui gli dedicano attenzione, dibattiti, celebrazioni. 
Perché questo è il Paese delle Rievocazioni: una tenace passione per la memoria che non posso non ammirare visto che vengo dal Paese dell’Oblìo.
E dunque anche un re un pochino “sfigato” come Harold II d’Inghilterra (1022-1066) ha fans sparsi per il mondo, gruppi di estimatori, libri dedicati e comitati come quello che l’ 11 Ottobre, a Waltham Abbey, cittadina dell’Essex, ha celebrato, come ogni anno, il King Harold Day, un festival in memoria del re, con danze, musiche, giochi e accampamenti medievali.

Ci sono stata e mi sono molto divertita, ho visto suonatrici di ghironda e pipes, arcieri e cavalieri, guerrieri che mi hanno fatto portare la loro spada, impavide falconiere, e volti antichi che non dimentico. Queste sono alcune foto.

La storia di Harold mi ha colpita, se avete pazienza vorrei raccontarvela (a modo mio, ovviamente).

Harold, Conte di Wessex, era cognato del Re d’Inghilterra Edoardo il Confessore (perché Confessore non lo so, ma che pretendete? I documentari sono in inglese, non è che capisca tutto…) il quale non aveva figli e quindi niente eredi diretti al trono. Come un anziano zio ricco circondato da parenti ossequiosi che ambiscono all’eredità, Edoardo doveva essere assediato a corte da possibili pretendenti (c’era in ballo un trono, mica un frutteto in campagna!)  e secondo me se la godeva promettendo più o meno velatamente la successione ora all’uno ora all’altro.

Uno che alla promessa ci aveva creduto era Guglielmo di Normandia (conosciuto prima come Gugliemo il Bastardo, poi Guglielmo il Conquistatore, un bel salto di qualità nel soprannome), ed era tanto convinto che per evitare rivali un bel giorno aveva ordinato cavaliere proprio il nostro Harold (che su quel trono ci aveva fatto più di un pensierino), facendosi promettere solennemente fedeltà e appoggio alla futura candidatura. Harold aveva promesso, pare (tenendo le dita incrociate dietro la schiena).

Poi il re si ammalò rimanendo parecchio tempo senza conoscenza. E qui arriva il primo colpo di scena: poche ore prima di morire Edoardo si risveglia e nomina Harold suo erede (le cronache non sono concordi, ma in questa storia non sono concordi su niente). Il Wiltan, l’assemblea di nobili del regno,si riunisce per prendere una decisione e il 6 gennaio 1066 incorona Harold II Re d’Inghilterra. Immaginate la faccia di Guglielmo.

Dunque il nostro Harold diventa Re: cerimonia di rito, saluti e baci, visita agli appartamenti, come mi sta la corona? Dovrò far ritappezzare il trono…  Ha appena il tempo di sistemarsi che gli arriva la notizia: Guglielmo gli ha dichiarato guerra per aver usurpato il trono e rotto il patto di alleanza, e sta cominciando a radunare le truppe nel nord della Francia.
Harold non ne avrebbe molta voglia, ma raduna un esercito e lo aspetta nel sud dell’Inghilterra. Passano molti mesi, e forse a causa dei venti sfavorevoli, l’attacco non arriva. 
Finite le provviste, l’8 settembre il nostro re deve sciogliere le truppe (ragazzi, abbiate pazienza, abbiamo scherzato…) e tornarsene a Londra
Si toglie l’armatura, si mette in vestaglia e pantofole e sta per sprofondare nel suo trono col telecomando in mano che arriva un’altra notizia: Harald III di Norvegia (Harold, Harald…eh, lo so…) gli ha dichiarato guerra affermando di essere il legittimo erede al trono (un altro?!) per un antico patto che avevano stretto suo nonno e il nonno di Edoardo. 
Sì, ora tirate fuori i nonni, ma non vi pare di stare esagerando?

Rimettiamoci le scarpe e andiamo a radunare un esercito. Chi vuole venire con me? Un coro di: Buuu, buuu… comunque per strada qualcuno riesce a raggranellarlo. 
Il 24 settembre i due eserciti si scontrano a York, vittoria schiacciante di Harold. 
Harald di Norvegia muore in battaglia. 
Bene, fuori uno: sciogliamo le truppe e rientriamo a casa. Ma neanche a pensarci! Nuova notizia: Il 27 settembre Guglielmo è sbarcato ad Hastings e conquistato la cittadina. 
Ragazzi… ehm… ci sarebbe una nuova battaglia, chi si offre volontario? Le cronache non riportano le risposte ma potete immaginarle.  Dai su, un piccolo sforzo, reclutiamo tutti, anche quelli un po’ scarsini, insomma, facciamo numero. 
E sbrighiamoci che Guglielmo avanza
.
È così che il 14 ottobre 1066 si combatte una delle più famose battaglie medievali, quella di Hastings, riportata come su un lunghissimo, meraviglioso fumetto, nel celebre Arazzo di Bayeux.

In campo abbiamo: da una parte l’esercito sassone guidato dal nostro Harold, formato essenzialmente dal popolo, non perfettamente armato, e un tantino stanco per la lunga marcia, tutti fanti, riconoscibile dall’aria del “chi me l’ha fatto fare”. 
Dall’altra l’esercito francese di Guglielmo, formato dal popolo e dalla nobiltà: arcieri in prima fila, poi fanti e infine …tadaan! La cavalleria pesante! Riconoscibile dall’aria del “ti spiezzo in due”.

Comunque Harold non dispera. Si piazza su una collina difficile da espugnare per la cavalleria. Parte il primo attacco degli arcieri normanni: una pioggia di frecce, ma i sassoni non fanno una piega, saranno pure stanchi ma scemi no, creano un muro di scudi e non si muovono di un millimetro.
Uno a zero per Harold.
Le truppe normanne si allargano nel tentativo di accerchiare il nemico ma la salita è impervia e parte il contrattacco: un gruppo di sassoni prende di mira l’ala bretone dei normanni, che si spaventa e indietreggia, in più si diffonde la falsa notizia che Guglielmo sia morto ed è il panico, i normanni sono nel caos.
Due a zero per Harold.
Ma ecco il nuovo colpo di scena splendidamente illustrato nell’Arazzo di Bayeux: Guglielmo si toglie l’elmo per farsi riconoscere e grida a squarciagola “Guardatemi, sono vivo!”, le truppe si rianimano ma sono ancora in grande difficoltà. Finchè i sassoni restano sulla collina la cavalleria non riuscirà a raggiungerli. 
Allora Guglielmo ha un’ideona: avendo osservato il gruppetto dell’esercito nemico piuttosto smanioso di inseguimenti, crea una finta ritirata ed ottiene l’effetto desiderato, il gruppo scende dalla collina per inseguire i normanni e le prende di santa ragione, il resto dell’esercito sassone cerca di aiutare l’ala in difficoltà e quindi scende a sua volta. 

La cavalleria aspettava solo questo per attaccare, uno dei primi ad essere colpito è proprio Harold, una freccia nell’occhio, e tanto di cadavere fatto a pezzi da Guglielmo in persona (non so che bisogno ci fosse di essere splatter, ma è così…).

Vittoria schiacciante (e direi massacrante) di Guglielmo, che il giorno di Natale 1066, viene incoronato Re d’ Inghilterra, dando il via al dominio della dinastia Normanna.


Se volete sapere qualcosa di serio su come sono andati i fatti, potete trovarlo per esempio qui:

mercoledì 8 ottobre 2014

Italians Do It Better (maybe...)

Noi italiani ci serviamo abbondantemente dell’inglese per la comunicazione (perché se è inglese è meglio), poi prendiamo i termini, li deformiamo, italianizziamo, ne facciamo ciò che vogliamo, siamo imbattibili in questo. 
Dalle mie parti vedevo spesso insegne di negozi con scritte raccapriccianti, FASHION massacrato in tutti i modi: FASCION, FASHON, FASCHION… (ho dovuto controllare prima di scriverlo, da quale pulpito…), qualche BIUTIFUL (tra i parrucchieri andava parecchio), nonché un INTERNASCIONAL.  

Pensavo che fosse un problema solo nostro ma devo dire che anche qui non se la cavano male. “Se è italiano è meglio” vale a volte per la moda, più spesso per il cibo.

Qualche locale fa i panini all’italiana. Ma dovete chiedere un PANINI (singolare), o più PANINIS (plurale). 
Spesso vedo il Cappuccino trasformarsi in CAPUCHINO e una volta mi sono imbattuta in un ITALIAN COTTECHINO, ma era un errore di trascrizione.


Colleziono volentieri menu di ristoranti e pizzerie d’asporto, capolavori di ingegno linguistico.
Su questo menu compare un ricercatissimo (dicono) piatto tradizionale italiano: ANTI (staccato) PASTI AND BOCHACINNI… sarebbe? Antipasto di verdure con Bocconcini di mozzarella. 

Ma se volete, a pagina dopo c’è anche la BOLOGNAISE, non so se consigliarvela però, si è “inglesizzata” per strada.


Sono rimasta molto colpita da questo MILANO PIZZA (che è come dire: Napoli Panettone, o Napoli Cassoeula. La cucina lombarda vanta grandi specialità, ma forse la pizza non è proprio la punta di diamante…), garantita 100% Halal, scritto in arabo perchè sia comprensibile (e allora siamo sicuri che la cucina è italiana…). 
Le foto, per un’amante della pizza, quella vera,  sono un susseguirsi di colpi al cuore (e allo stomaco). Una gigantesca “cosa” guarnita da serie di involtini al formaggio (che, all’emigrante nostalgico e confuso, a prima vista sembrano babà alla crema). 

Ben 33 varietà di pizza con gli ingredienti più disparati, dal Pollo Tandoori o Barbecue, alla Doner (italianissimi!).
Segnalo la n°31: SICILANA (senza la L) e la 32: VERDUE (senza la R).



In questo “Italian Base Pizzas” (una PIZZA, più PIZZAS), trovo nomi familiari come CAPRICCIOSA, QUATTRO FORMAGGI, condita con Buffalo Mozzarella (che è mozzarella di bufala come io sono la Duchessa di York ) e  Feta greca… (che per altro,sarà ottima);  la Quattro Stagioni ha gli asparagi… ma, ognuno la pizza la fa come vuole, no?  
Poi c’è la SUPREMEA (una E in più?) e subito dopo la Napoletana c’è la PARMATTA, il cui nome mi lascia un po’ interdetta (scusate la rima), che dentro ovviamente ha l’ANANAS, ingrediente tipico della cucina parmense, parmigiana, PARMATTA, insomma…

Ricordate che sulla pizza ci sono spesso PEPPERONI, che non sono peperoni (attenti, italici vegetariani, non andate in confusione!), ma un salame piccante, se invece volete del salame normale, dovete chiedere il SALAMI, un SALAMI, più SALAMIS.  





A volte nella stessa pizza (in questo caso l’ Americana) potete trovare: Sausage (salsiccia), Salami (salame), Pepperoni with chilli (salame piccante al peperoncino), e Peppers (peperoni). 

E resterete sazi per due giorni, il tempo medio di digestione è infatti 48 ore, buona fortuna!


mercoledì 1 ottobre 2014

A London Based Illustrator

illustrazione per  Oxford University Press, particolare-monicauriemma
La Princesse et les Prétendants, Allez- Oxford University Press, particolare

L’ho incontrata ad ottobre 2013, un anno fa, erano due mesi che la inseguivo via mail. Dopo più di un anno di ricerca, e infiniti elenchi di nomi sottolineati, cerchiati, depennati ...

Mi aveva inviato già la bozza di contratto e si era detta entusiasta di rappresentarmi ma io ho insistito per vederla da vicino, anche se c’era da aspettare.

Dovevo guardare in faccia la persona nelle cui mani stavo mettendo il mio lavoro (e il mio futuro qui).  
Dovevo dirle che se affidavo l’esclusiva ad un’agente, volevo qualcuno disposto davvero a puntare su di me, non mi interessava essere infilata in un calderone in attesa che mi si scovasse per caso, e non volevo che mi si dicesse “ho importanti notizie da comunicarti” per poi sparire nel nulla (come mi era già accaduto), avevo già perso troppo tempo. 
Dovevo dirle che dopo un anno dal mio trasferimento, per sopravvivere facevo le pulizie, e se lei credeva veramente a quello che mi aveva scritto: “You indeed are a very talented artist”, questo era il momento di dimostrarmi che era in grado di procurarmi il lavoro per cui ho veramente talento.

La mia esperienza come cleaner mi aveva regalato tra le tante cose, una nuova determinazione, una chiarezza d’intenti, insieme a un pizzico di: adesso ti faccio vedere chi sono, che a volte è molto utile ad una come me, abituata fin troppo al basso profilo.

Piccolo particolare, avrei dovuto dirglielo in inglese (sigh…).

Ci incontriamo al Circus Cafè, zona est di Londra, un locale piccolo ma delizioso, con arredamento e tappezzeria ricavati da oggetti di risulta, perfetto per me.
Bruna, snella, di quelle donne eleganti naturalmente, anche senza trucco e con i capelli raccolti con una matita, si chiama Sylvie ed ha un bellissimo accento che tradisce le origini francesi, poi scopro che è anche un po’ italiana, per parte di padre. Guardiamo i miei disegni e parliamo, parliamo per due ore delle nostre esperienze, della nostra storia, in un pittoresco itanglish /franglish.

E’ una vergogna che tu non abbia ancora sfondato qui – Più che altro è una sfiga…
- Non voglio che tu tra un anno mi dica: mi sto mantenendo facendo la cleaner – E figurati io!
- Non posso darti certezze ma dobbiamo fare un piano d’azione – “action plan”, “strategy”, tesoro, hai appena detto le parole magiche che speravo di sentire. 
- Attaccheremo il mercato su più fronti. Picturebooks di pregio (potrebbe servire anche un anno per trovare la commessa giusta) e mercato commerciale, advertising, educational, che portano liquidità. Sei abbastanza versatile per poterlo fare, se sei d’accordoSe sono d’accordo??? Ma dimmi dove devo firmare!

Forse l’ho trovata. Non oso dirlo ai quattro venti ma torno a casa piena di speranza. Seguono una serie di scambi di materiale e finalmente a dicembre 2013, il mio primo incarico.

Una piccola immagine per Allez una pubblicazione della Oxford University Press, l’illustrazione di un racconto tradizionale del Mali per insegnare il francese a ragazzi inglesi (quando si dice intercultura…).

La Princesse et les Prétendants una sorta di Turandot africana.
illustrazione - Oxford University Press-monicauriemma
Ayawa, una principessa troppo bella e fiera per accettare la corte dei numerosi nobili venuti da tutto il globo per sposarla, indispettita e affaticata dal dover dire tanti NO, decide di smettere di parlare. 
Il padre disperato annuncia che qualunque pretendente sia in grado di farle tornare la parola avrà la sua mano. 
Ma l’impresa sembra impossibile per chiunque. 
Un giorno un mendicante, neanche tanto attraente, si inginocchia davanti a lei, e senza dire una parola accende un fuocherello e tenta di preparare un tè con un bollitore poggiato su due pietre. 
Ovviamente il bollitore senza equilibrio cade, e cade più volte, ma lui con pazienza ci riprova. 
Ayawa resta in silenzio finché può, al quindicesimo tentativo sbotta:- Ma insomma, mettici una terza pietra, così non cade!!!

E così la principessa sposa un mendicante, e vissero tutti felici e contenti? Io non credo, ma mi diverte molto l’idea che per noi donne sia impossibile tacere quando vediamo una cosa storta…

È una tavola piccolissima, 12cm x 5, non certo un capolavoro, ma io le sono molto affezionata. Per me questa era la chiusura di un cerchio e un nuovo inizio.
Il mio primissimo schizzo in terra anglosassone, era il ritratto di una donna nera incontrata in metro, lo avevo chiamato “Principessa Africana”, forse era lei, Ayala, venuta a portarmi fortuna… 
Grazie ad uno strano incrocio di lingue, origini, energie, per buona parte femminili, potevo finalmente dire: I’m a London based illustrator.

mercoledì 24 settembre 2014

Del Rispetto o della Guerra Fredda

Illustrazione per La Bottega dei sogni perduti-monicauriemma
Il Signor B. "La Bottega dei sogni perduti" Lavieri Edizioni. Testo Manuela Salvi
Sono particolarmente sensibile a tutto ciò che rimanda alla parola rispetto nelle sue varie accezioni. Forse perché nella mia storia personale ho dovuto “ricostruire” il rispetto per me stessa. Forse perché una delle ragioni per cui sono emigrata è che vedevo il mio lavoro continuamente disprezzato, svalutato, avvilito.
Insomma sull’argomento ho le antenne tese e osservo con molta circospezione. 

Non posso dire di essermi fatta un’idea chiara di come funzionano le cose qui, almeno nel mondo del lavoro. 
Certo la cortesia con cui vieni accolta, i continui ringraziamenti per quello che fai, l’idea che ti viene trasmessa, di essere un elemento prezioso, piuttosto che la desolante sensazione di dover continuamente ringraziare tu per lavori massacranti e magri compensi, sono un punto a favore del Regno Unito. 
D’altra parte questa può essere solo la superficie, ho ascoltato da amici più di un episodio poco simpatico. 
Comunque ho raccolto qualche indizio.

Parto da un episodio accadutomi in uno dei miei lavori come cleaner
Un giorno avevo difficoltà a sbloccare una porta chiusa, cerco di spiegare il problema al portiere dello stabile (mio diretto referente per quel lavoro), ovviamente ci metto una vita con la mia fantastica proprietà di linguaggio. 
Mentre inciampo sulle parole, lui spazientito si alza di scatto, mi chiede di mostrargli il problema, sblocca il meccanismo della porta e se ne va sbattendola e blaterando qualcosa di incomprensibile. 
Io gli chiedo scusa senza sapere bene per cosa e torno al lavoro, un po’ arrabbiata in verità. Che scortesia! E che ti ho fatto?! Va bene che mi esprimo male ma un minimo di pazienza!

Alle dodici mi raggiunge il Building Manager. Mi fa: - Ti chiedo scusa per il comportamento del portiere, devi perdonarlo, è in un brutto periodo…- io, decisamente stupita, minimizzo: -Sì, lo vedo un po’ strano, comunque è tutto a posto, non c’è problema-. Fine. 
Ma continuo a rimuginare. 
Il “capo” che si scusa con l’ultima arrivata per una cosa che neanche ha fatto lui e che in teoria non dovrebbe sapere, non era presente e io non ne ho parlato…
Chi gli ha raccontato l’accaduto? 
Evidentemente il portiere, e perché? Che senso ha? 
Cos’è, una specie di codice d’onore tipo Samurai? Talmente buono d’animo e sensibile che, roso dal rimorso per avermi maltrattata, non ha avuto il coraggio di scusarsi di persona ed è andato a confessare il suo peccato al BM?
Possibile, ma più verosimilmente, perché si è reso conto di aver fatto una cazzata che poteva portargli delle conseguenze e questa era la cosa migliore da fare per lui.

Ho messo insieme un po’ di informazioni e riflettuto su due cose:

Primo: qui, anche l’ultimo della gerarchia (una cleaner, straniera, con un contratto temporaneo di pochi giorni, come me, per esempio) ha diritto alla massima gentilezza, e in caso contrario ha il potere, attraverso il complain (il reclamo, la lamentela) di far passare un brutto momento a colleghi e superiori. Avrei potuto semplicemente lamentarmi per rendergli la vita complicata. I comportamenti scorretti o arroganti non sono tollerati. La parola “rispetto” dunque, ha un senso molto preciso.


Secondo: qui si evita lo scontro diretto, ad ogni costo
C’è tutto un percorso da fare: se hai un problema col collega, non parli con lui ma col supervisor, se hai un problema col coinquilino parli col proprietario, se la cleaner non pulisce a dovere non glielo dici ma ti lamenti con la ditta ecc… 
Tutto questo ha il nobilissimo intento, credo, di allentare le tensioni ed evitare conflitti, soprattutto tra persone di nazionalità e culture diverse che coabitano lo stesso luogo. 
Tra te e lo scontro si pongono una serie di filtri per cui diminuisce il pericolo di violenza, i tempi si diluiscono, azione e reazione si allontanano. 
Fantastico, sicuramente, ma c’è un rovescio della medaglia. 
Assisto ad una specie di svuotamento di responsabilità
Io sono arrabbiata con te ma non te lo dico in faccia, vado a riferirlo al tuo superiore e magari rincaro la dose. Come alle elementari: glielo dico alla maestra. 
Questi a sua volta riprende il subalterno (ma non prendertela con me, non è colpa mia, mi hanno fatto un complain ) . 
Ho potuto osservare da vicino questa pratica quando il responsabile, in un altro condominio dove ho lavorato, nel corso di una riunione stava molto attento a rimproverarci tutti (gruppo di cleaners) con una serie di giri di parole, precisando che lui riportava solo le lamentele di un inquilino e che con l’inquilino ci difendeva; ero quasi ammirata dal sapiente uso delle parole per far trapelare il messaggio dal non detto. 
Così noi, a nostra volta non potevamo arrabbiarci con lui perché "ambasciator non porta pena"… Insomma… 
Io non sono una litigiosa, ma, sarà che sono del sud, sono cresciuta diversamente. 
Credevo che mettere in mezzo altre persone quando hai un problema con qualcuno, fosse infantile, credevo che certe questioni si potessero sbrigare col diretto interessato senza stare a scomodare i superiori. 
Nell’universo mentale in cui ho vissuto finora, io non ci penso proprio ad andarmi a lamentare per un unico episodio di scortesia, al limite dico alla persona: - Amico, ma che problema hai? - Abbi pazienza, oggi ho la luna storta - Non c’è problema - una pacca sulla spalla e tutto finisce lì, in 5 minuti, senza stare a scomodare l’intero management. 
Ma a pensarci bene potrebbe andare diversamente: -Amico, ma che problema hai?- E lui mi sferra un pugno sul naso perché nella sua cultura questa è un’offesa che si lava col sangue. 

Meglio che mi abitui ad un comportamento che evidentemente assicura, se non la pace, almeno una “guerra fredda” senza spargimento di sangue (ma con una fittissima rete di spie e delatori). 

Forse un liberatorio vafanguuuuu…. ogni tanto non sarebbe male.