mercoledì 28 gennaio 2015

Big Big Daddy

scketch portrait of a man with his baby-monicauriemma

Uno dei miei Incontri Metropolitani
L’ho avvistato in metro: altissimo, tratti nordici, naso da pugile, una montagna di muscoli tatuati, e tutto il corredo di accessori che ti fanno pensare subito “non vorrei mai incontrarti in un vicolo buio”. 
C’è solo una cosa che stride col quadro del ti spiezzo in due: porta un passeggino. 
Sistema con gesti sicuri la carrozzina nello spazio dedicato del vagone e prende in braccio il batuffolino che avrà avuto sì e no tre mesi, e tu pensi “attento che lo stritoli!”, se lo mette in grembo e passa il resto del viaggio col sorriso più beato del mondo.

E tu rimani a fissarlo (che non è una cosa carina da fare) con la bocca semiaperta, e ti viene un moto di tenerezza.

Sarà che io vengo da un modello di famiglia tradizionale, ma proprio vecchio stampo (al limite della preistoria), dove la figura materna copriva il 99% della cura dei figli e il padre era praticamente tagliato fuori o autoescluso, appariva nel momento in cui c’era necessità di un rimprovero e poi si ritirava nel suo antro a fare l’unica cosa per cui era programmato: procurare un’entrata monetaria e garantire la sopravvivenza… ma quando vedo una scena del genere si innesca tutto un processo emotivo, segnali d’allarme mi provocano nostalgia di un contatto mancato. Perciò resto colpita, e incantata.

Non so se è perché ho vissuto tanto in provincia, e per giunta la provincia del sud Italia, ma tutti questi maschi a spasso coi bebè non mi erano familiari. 
Quanti uomini vedo in giro qui (ma tanti!) con bambini anche piccolissimi in braccio, nei marsupi, sul sellino della bici, per mano… che siano i soli adulti, o in compagnia di donne o altri uomini non fa differenza. 
Ho la sensazione che siano molti di più che in Italia. 
Sia chiaro, conosco varie coppie giovani italiane in cui il padre spende un sacco di energia e tempo a occuparsi dei figli ma temo che ci sia ancora uno “zoccolo duro” nella testa delle persone (forse anche nella mia?) per il quale la cura del bebè è considerata naturale per la madre, un po’ meno per il padre.
Mi piacerebbe che si frantumasse.

Perché i papà con i bambini piccoli sono proprio un bello spettacolo da vedere.

mercoledì 21 gennaio 2015

Lacreme Napulitane

Pino-Daniele-portrait-monicauriemma
Pino Daniele portrait ©Monica Auriemma

“…Pe nuie ca ‘nce chiagnimm’o cielo e Napule / comm’è amaro ‘stu pane![1]“E cambia panettiere!!!”. 
Leggenda vuole che dalla platea si levasse questa risposta alla fine della canzone sugli emigranti, zeppa di retorica, perché la tragedia strappacuore si stemperasse in una risata. 
Non avrei mai creduto che un giorno anch’io avrei pianto lacreme napulitane
Ebbene, il terzo Natale Londinese ha messo a dura prova l’emotività della povera emigrante partenopea, già decisamente incline al pianto. Approfittavo delle feste (altrui, io ero inchiodata nel mio antro oscuro, a tentare di consegnare un libro) per sentire almeno alcuni tra amici e parenti che non vedo da parecchio. 
Sarà la lontananza, la situazione drammatica italiana, un senso di insoddisfazione generale, i dolori personali e quella vaga sensazione di abbandono ma nove chiamate su dieci si concludevano immancabilmente in pianto. Io di qua e loro di là. Una tragedia.
Hai voglia di fare la forte, di dire che no, no, non ti manca affatto la tua terra, che stai bene così e non torneresti indietro, il tessuto di affetti che è cresciuto con te risente terribilmente la lontananza, nonostante il telefono e internet.

E poi Napoli… una specie di conto in sospeso, qualcuno con cui hai litigato tempo fa e non hai il coraggio di dirgli che gli vuoi sempre bene, perché devi mantenere il punto. 
Napoli che la vai a trovare ogni volta come se fosse un genitore che invecchia, che muori dalla voglia di vederla e poi non vedi l’ora di scappare perché lo sai che litigherete di nuovo. 
Tutte le volte che ci vado mi concedo il rito del Saluto al Mare. Passo davanti all’Accademia di Belle Arti in cui ho speso circa 10 anni della mia vita, attraverso spedita Via Toledo, mi affaccio da Santa Lucia, resto un po’ in silenzio, respiro, me ne vado. 
Ogni volta con in testa questi versi: “chi tene 'o mare/'o sape ca è fesso e cuntento / chi tene 'o mare 'o ssaje/nun tene niente...[2] 
E mi ripeto che sì, ho fatto bene. 
Che adesso, qui,  riesco ad immaginare un futuro, posso concedermi la gioia di fare progetti per la mia vita, e credere che forse si potranno realizzare, mentre molti (troppi) dei miei conterranei si accontentano del mare, del sole e tirano semplicemente avanti, che oltre l’immediato non si può guardare. 
Per non arrendermi all’amarezza e al pessimismo, dovevo andarmene, o soccombere. Ho fatto la mia scelta. E so che per tutta la vita farò i conti con questa mancanza.

Fantastici pensieri per tirarmi su, ottimo, ottimo inizio del 2015! Ma non bastava. Doveva arrivare la notizia della morte di Pino Daniele.

Le lacrime sono diventate fiume. Giorni e giorni. Non chiamavo nessuno per non piangere di nuovo.  Vedevo le immagini del flash mob e del funerale, volevo essere lì, io che evito adunate e manifestazioni, per la prima volta ho desiderato ardentemente essere lì, casa mia. 
Leggevo tutto quello che potevo, disperatamente assetata di notizie[3]
Amici mi mandavano messaggi come se mi fosse morto un parente. Eppure è un dolore che non avrebbe logica, insomma, non è che fosse DAVVERO un mio parente, non lo conoscevo neanche di persona, non sono musicista, non ho mai avuto a che fare direttamente con lui. 

Ho cercato di capire, ho pensato che era perché sono lontana che tutto si amplifica, ho pensato che è perché ho 46 anni e negli anni ’80 ero adolescente, ho pensato che forse non piangevo l’uomo, l’artista, forse io, come moltissimi, piangevo il simbolo del mio recente passato. “E’ come se fosse caduto il Maschio Angioino” ha detto Nino D’Angelo. Aveva ragione. Il silenzio di duecentomila persone (così “innaturale” per i napoletani) è stato più eloquente di tanti discorsi.

Non sono in grado di fare un’analisi storica approfondita, non ne ho gli strumenti.  E’ solo che questa morte mi ha costretta a ricordare. Chi ero io in quegli anni e che cosa stava succedendo a Napoli. Ci stavo dentro e non me ne rendevo conto. Non ci ho mai pensato.

C’è stato un tempo in cui eravamo fieri di essere napoletani.
Ed era un tempo oscuro per quello che ricordo, la fine degli anni settanta, si usciva a pezzi dall’austerity, l’inflazione e i miniassegni al posto del denaro, la crisi energetica, per la prima volta conobbi il termine cassa integrazione, il flagello che si abbatté in casa col contemporaneo (imprevisto) arrivo di mio fratello, quarto figlio dopo otto anni da me. 
Il clima era pesante, percepivo di essere povera (anche se il pane non mi è mai mancato). 
A Napoli si parlava della Nuova Camorra Organizzata , della Droga, quest’entità astratta che sapevi essere il Male Assoluto ma non capivi se si fumava, si beveva, si iniettava…

Tempo oscuro dicevo, ma ricchissimo di fermento culturale, dovunque, a Napoli in particolar modo. C’era un grosso lavoro di ricerca sulle tradizioni popolari in tutta Italia, mi arrivavano gli echi de “La Gatta Cenerentola” di De Simone e la Nuova Compagnia di Canto Popolare, ma per me ancora bambina erano fenomeni troppo intellettuali, li assorbivo, senza comprenderli se non anni dopo.
A casa mia non si parlava napoletano, che pareva brutto. 
Il dialetto era permesso solo come esercizio di cultura, per le canzoni (quelle antiche, la sceneggiata e i neomelodici non erano roba per noi), il Teatro, un linguaggio tragico e comico ma datato, i nostri due pilastri: Eduardo, Totò

E poi arrivò “Na tazzulella e’ cafè/ c’a sigaretta a’coppa pe’ nun vere’/ che stanno chine e sbaglie/ fanno sulo ‘mbruoglie”[4], il messaggio era chiaro perfino a me, era qui e ora, qualcuno ci stava dicendo di svegliarci dal torpore, di mollare i contentini come sole, mare, caffè. “E il mare? Il mare sta sempe là /tutto spuorco, chin’e’ munnezza/ e nisciuno o vo’ guardà”[5]
Questo Pino Daniele aveva una potenza nel suono e nella voce che non poteva non arrivarti, ti mostrava Napoli senza fronzoli: “ ’na carta sporca/ e nisciuno se ne ‘mporta”[6], ti parlava di “tutte e’ paure/e nu popolo ca cammina sotto ‘o muro” [7]
E io che vivevo quell’età stranissima tra l’infanzia e l’adolescenza in cui cominci a sviluppare il senso di appartenenza al gruppo al di là del nucleo familiare, mi chiedevo perché mai il mio popolo camminasse sott’o muro, di che avevamo paura? Eravamo Napoletani! Lo consideravo ancora un valore aggiunto.
Imparavamo a memoria gli sketch de La Smorfia di Troisi , li recitavamo sul terrazzino delle mie amiche, il nostro palcoscenico. 
Sentivo parlare del Neapolitan Power e del Blues, del Jazz, senza capire di cosa si trattasse, ma mi piaceva. E cantavo a squarciagola “Je so’ pazz/Nun ce scassate o’ cazz!” [8] abbassando la voce sull’ultima parola, per non essere ripresa dai grandi.
 
Ci eravamo trasferiti dalla città in un paesino invero piuttosto brutto, appena al di fuori della periferia napoletana, che non riconoscevo come mio, ci tenevo a dire che ero di Napoli, cittadina e non “paesana”.
Androni bui, rivestiti di plastica marrone che si ostinava invano ad imitare il legno, portoni di alluminio anodizzato, il condominio/casermone che chiamavamo Il Parco, microcosmo di vita comunitaria, faceva da sfondo alla mia infanzia, coi suoi personaggi mitici: il femminiello, ragazzo gay aspirante stilista,  “chill’ è nu’ buono guaglione/ sogna la vita coniugale/ ma per strada poi sta male perché si girano a guardare”[9]La Rossa (per via dei capelli) dal numero imprecisato di figli avuti da un numero imprecisato di partner, con un passato di vita da strada, e un presente di contrabbando di sigarette. Gli invisibili, agli arresti domiciliari, non ne conoscevo le fattezze ma sapevo che c’erano. 
Il confine tra legale e illegale, tra persone per bene e delinquenti era sempre molto labile.

Il terremoto dell’80 e la città in ginocchio, mi sentivo importante anche nella tragedia, come se quando succedeva qualcosa a Napoli, succedeva più forte.  
Il caos dei soccorsi e dei finanziamenti, le mani della camorra sulla ricostruzione.  
La musica sempre più importante nella mia vita di ragazzina: la radio libera che si sentiva a raggio condominiale creata dal nerd del palazzo affianco, con le dediche al citofono invece che al telefono. 

Dopo le medie volevo fare il Liceo Artistico. 
- Ma perché non fai l’Istituto d’arte a Capodimonte? Impari a fare la ceramica…
- Ma la ceramica di Capodimonte mi fa schifo… 
- Ma al Liceo Artistico gira la droga…
- Ma secondo te sono così scema che mi piglio la droga? 
Tra un “ma” e l’altro la spuntai. Fu forse per mantenere la promessa fatta a mia madre che non sono stata mai capace di farmi una canna, fumare una sigaretta intera e sono astemia? Capisco che lei avesse paura di mandarmi da sola fino a Napoli, a 13 anni ero alta un metro e trenta e sembravo una bambina piccola, un pulcino nella “Metropoli Tentacolare”. 
Eppure per me fu il massimo, riappropriarmi della mia città, essere finalmente a casa.

Napoli mi appariva così bella, ci passavo tutto il tempo che potevo. 
Era l’età della perdita di fiducia in se stessi e del bisogno di crearsi un modello. Mi accorgevo di non essere quell’artista eccezionale che mi avevano fatto credere, fuori dall’ambiente ristretto del paesino nel quale ero una spanna più avanti degli altri, mi confrontavo con tutti quelli che in disegno avevano vero talento, forse fu allora che cominciai a cancellare (da piccola i miei disegni erano fatti velocemente, a mano sicura, senza incertezze). 
Mi accorgevo che i corpi dei miei compagni assumevano sembianze adulte mentre il mio restava dolorosamente bambino. 
Mi sceglievo il modello dell’artista/intellettuale senza esserlo, mi vestivo come se mi infilassi in un sacco sperando di essere invisibile e di compensare con la conversazione, il talento e lo humour, un appeal che il fisico non mi consentiva.
Mi aiutavano I film di Massimo Troisi di cui tutti sapevano le battute a memoria, e poi Così parlò Bellavista, l’ironia a Napoli mi sembrava più bella. 
Quell’anglo-napoletano “Yes, I know my way/ ma nun’è addo’ m’è purtato tu”[10], arricchiva il nostro gergo, localissimo ma per noi universale. Fieri eravamo della nostra lingua. 
Maradona al Napoli (del calcio non me ne fregava niente ma la città era entusiasta e io mi accodavo). Le Vele di Scampìa e lo spaccio, la guerra di Camorra, l’omicidio Siani, le manifestazioni a scuola.

Noi,  generazione sfigatissima, disprezzata dai fratelli più grandi, che loro sì che avevano lottato, loro erano andati in giro a tirare molotof (ma che bravi…) e a prendersi a mazzate coi fascisti (ma bravissimi!) mentre noi litigavamo per gli zainetti-dell-invicta, anzi, “gli altri”, io, l’artista intellettuale, lo zainetto-dell-invicta non lo guardavo nemmeno (anche perché non me lo potevo permettere); loro avevano avuto i Led Zeppelin e noi appresso ai Duran Duran
Mi innamoravo regolarmente di ragazzi (possibilmente “tormentati”) che non mi corrispondevano, ma diventavamo amici, ci scambiavamo le cassettine, ascoltavo la loro musica, e così mi immergevo nei Pink Floyd perché piacevano a uno e tutto l’Hard Rock che le mie orecchie riuscivano a sopportare perché piaceva a un altro (ma i Black Sabbath no, proprio non ce la facevo), più spesso ascoltavo la New Wave britannica, a volte si litigava sui Duran ma su Pino Daniele eravamo tutti d’accordo. 
La musica era ormai un pezzo di me.

Forse perché ero adolescente e tutto mi sembrava tragico o magnifico, forse perché quelli furono anni a modo loro speciali, li ricordo come gli ultimi in cui l’appartenenza a Napoli era spensieratamente piena e orgogliosa, Daniele, Troisi e alcuni altri potevano essere duri e maltrattarla perché erano “dei nostri”, una spinta autentica a destrutturare il vecchio, a cambiare tutto.

E poi? Le spinte al cambiamento ci furono anche dopo, certo, gli Almamegretta, i 99Posse, il Teatro e il cinema napoletano, Martone, Corsicato, il sindaco Bassolino e il sogno (infranto) di una città diversa, io uscivo dall’Accademia di Belle Arti piena di speranze...
Questo è un lavoro, ma non ti posso pagare… Assistente all’Accademia! Ma senza compenso… Solo un gettone di presenza… Devi fare esperienza… Ti pago in nero… Allora non vuoi fare la gavetta?... 
L’eccezione diventava la norma, l’aberrazione il quotidiano, l’orgoglio lasciava il posto alla rassegnazione, la città era sempre più difficile da vivere, da sostenere anche nel quotidiano. 
Facevo quello che capitava, il mio talento era sempre al servizio di qualcuno o di qualcosa in cui non mi riconoscevo più, il Teatro che avevo mitizzato, a volte si rivelava un covo di serpi. 
Anch’io mi sono accontentata, e ho tirato avanti finché ho potuto, poi mi sono allontanata pian piano, fino ad andarmene sbattendo la porta. 
“Voglio di più/ di quello che vedi/ voglio di più/di questi anni amari”[11]

Napoli scusami, forse ci ho provato, di sicuro non ci sono riuscita.

Pino scusami, non piangevo solo per te, piangevo anche per me.






[1] “Lacreme napulitane” Libero Bovio,1925
[2] “Chi tene o mare” Pino Daniele, 1979
[3]  Segnalo qui: il duro, lucidissimo post sul blog Errecinque, e l'emozionante ricordo personale di Gaia Monti
[4] “Na tazzulella e’ cafè”, Pino Daniele, 1977
[5] “Il mare”, Id., 1979
[6] “Napul’è”, Id. 1977
[7] “Donna Cuncetta”, Id. 1979
[8] “Je so’ pazz”, Id.1979
[9] “Chill’ è nu’ buono guaglione”, Id. 1979
[10] “Yes, I know my way”, Id.1981
[11] “Voglio di più”, Id.1980