mercoledì 29 aprile 2015

Caro David Cameron

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Non abbiamo il piacere di conoscerci,
sono un’immigrata, europea, precisamente PIGS*. Adesso non fare quella faccia, please, so che per te siamo un bel problema. Ma non è colpa mia se il tuo piano di taglio all’immigrazione è fallito perché ti preoccupavi degli extracomunitari e ti hanno invaso dall’Europa, guardavi ad est e siamo arrivati noi dal sud. Ti giuro che non ci siamo messi d’accordo. Siamo l’emblema della tua sconfitta, ma credimi, non l’abbiamo fatto apposta.

Volevo solo dirti che io ti capisco. L’aumento rapido dell’immigrazione porta sempre problemi di adattamento, tensioni, insomma non è semplice. La gente comincia ad essere preoccupata.

So che Farage dell’UKIP ti sta facendo venire la gastrite. Lui è bravo a prendere consensi parlando direttamente all’istinto, senza passare per il cervello; offre soluzioni elementari a problemi complessi. Le cose non vanno bene? Colpa degli immigrati! Riprendiamoci la nostra Patria, e fanc… a questa Europa che ci riempie di stranieri che ci rubano il lavoro! Un vero campione di retorica (mi ricorda qualcuno in Italia…). 
Solo che lui se lo può permettere, è “estremista”, tu devi avere un po’ più di aplomb.

Allora hai promesso che se ti rieleggono rinegozierai i termini dell’appartenenza all’Unione Europea cominciando dalla libertà di movimento. E se questo non sarà possibile, allora non escludi nulla. Poi i cittadini europei saranno espulsi se ancora disoccupati dopo sei mesi di permanenza e potranno chiedere i benefits (sussidi per la sopravvivenza) solo dopo aver vissuto, lavorato nel paese, e pagato tasse, per quattro anni. 
Detto tra noi, magari va bene per i tuoi elettori, ma sei sicuro di poterlo fare? E sei sicuro che funzioni da deterrente per tutti gli immigrati europei?

Premetto che voi avete un sistema di welfare invidiabile per alcuni aspetti (almeno rispetto a quello da dove provengo io) che però presenta dei problemi di “parassitismo”. 
La risposta elementare è: togliamo gli aiuti agli immigrati! Se non trovano lavoro tornino a casa loro, che di parassiti non ne vogliamo.
La risposta complessa, dolorosa, ma forse più esatta è: se cerchi parassiti forse ne troverai di più tra i tuoi concittadini inglesi che praticamente vivono una vita On Benefit, fanno figli per avere una casa popolare e si trascinano tutta l’esistenza così; molti di meno tra gli immigrati europei, specialmente da quelli del sud-ovest che vengono qui per uno scopo: costruirsi un futuro.

Non è che mi sia improvvisata esperta, è che ci sono varie ricerche, come questa del  CReAM riportata in un articolo del Guardian:  I migranti europei pagano molte più tasse di quanto ricevano in benefits. Quelli provenienti dall’ovest e dal sud dell’Europa in particolare, hanno un’istruzione più alta della media dei nativi, e l’UK dovrebbe spendere miliardi in istruzione per arrivare allo stesso livello di “capitale umano”
È questa la chiave, caro David, siamo capitale (una parola che deve piacerti, lo so). Un problema, ma anche un’enorme risorsa, se riesci a gestirla.

Ti porto la mia esperienza, che certo non vale per tutti, solo per aiutarti a capire. Nel mio paese lavoravo come un mulo senza guadagnare abbastanza per sopravvivere. Aiuti statali? Lo stato sembrava mettercela tutta per affossarmi ulteriormente. 
Sai quali erano i miei Ammortizzatori Sociali, i miei Benefit? 
La famiglia, che mi ha dato un tetto sulla testa finché ha potuto e dopo c’è sempre stata in caso di bisogno; la suocera che si presentava con la spesa fatta per me; il vicino che mi regalava il pesce fresco; gli amici che mi riparavano gratis il computer; quelli che: non ti preoccupare per i soldi, ci penso io
Il mio welfare, l’unico che funzioni veramente in Italia, era il tessuto affettivo in cui ero nata e che mi ero costruita, le relazioni profonde di mutuo soccorso, i legami veri grazie ai quali non mi sono mai sentita sola… Credi davvero che avrei lasciato tutto questo per sopravvivere di sussidi? 
Quello che io cercavo venendo qui era progettare un futuro impossibile in Italia. Non i benefit.

Quando sono arrivata qui, dei sussidi non sapevo niente. Cercando un corso gratuito d’inglese ho scoperto che potevo farlo solo se ero “On Benefit”. È così che sono entrata nel Jobseeker Allowance, il sistema che per qualche mese mi ha consentito di fare la spesa senza affanno mentre cercavo lavoro, frequentare il corso e perfino prendere gli occhiali per vedere alla lavagna.

Caro David, io ti sono molto grata per questi mesi, ma ti dico che non sono stati facili, ho provato molto disagio. 
Perché a me sembrava di chiedere la carità. 
Gli incontri al Job Centre erano una piccola tortura, non riuscire a portare buone notizie alla mia advisor era frustrante, mi sentivo giudicata, inadeguata, ero costretta a seguire procedure rigide e a volte assurde. 
Certo non sono mancate le belle sorprese:  quando ottenni la prima interview mi fu indicato un negozio dove acquistare (a spese dello stato!) un abito formale adatto. Volevo piangere credimi, volevo abbracciare l’advisor come fosse stata mammà.  
Appena trovato il primo lavoro come cleaner salutai e ringraziai tutti. 
Ti sono infinitamente grata ma spero di non dover mai più rimettere piede in un Job Centre.

Ora sono una self-employed molto fiera di aver fatto la mia prima dichiarazione dei redditi, pago il mio bel contributo mensile al tuo welfare, insomma, stai tranquillo, quei mesi sono stati ben spesi. 
Il mio compagno lavora, da due anni, il suo capo è felice di aver trovato uno con il suo spirito d’iniziativa e le sue qualità. 
Anche dalla sua busta paga c’è una trattenuta per il welfare, il ché va benissimo, ma se dovesse perdere il lavoro per qualche motivo prima di quattro anni? E se non riuscisse a trovare niente velocemente? 
Pensa se fossimo costretti ad andar via. Allora sì che l’investimento che tu hai fatto su di me, e che io ho fatto su di te, portando i miei pochi risparmi qui, sarebbe stato inutile.

Secondo me togliere i benefit non scoraggerà gli italiani che vogliono partire, perché non mirano a quello. Se volessero arrangiarsi starebbero ancora a casa di mammà. 
Devi trovare altre strade che colpiscano i nostri punti deboli senza sembrare contro l’immigrazione. Inventati nuove leggi sulla quiete pubblica che puniscano con l’arresto o il rimpatrio chiunque applauda all’atterraggio dell’aereo su suolo britannico. Oppure metti un limite di decibel al volume della voce nei luoghi pubblici, multe a chi lo supera e dopo tre volte espulsione. 
Vedrai quanti italiani eliminati!

Ma, seriamente: vuoi davvero che sgombriamo? Cioè, davvero non ti serviamo?

Il quotidiano economico International Business Times dice che tu vuoi un’economia più forte ma non puoi averla senza immigrati, e secondo lui tu lo sai perfettamente
Dice che l’immigrazione è il mezzo più semplice e a buon mercato per far crescere la tua economia. Perché il tasso di natalità è basso e la popolazione nativa sta invecchiando. 
Perché gli immigrati sono in genere adulti che arrivano istruiti, qualificati e pronti a lavorare, così non devi investire in istruzione e formazione. 
Sono una sorta di “pacchetto completo” che ti si presenta alla porta, pronto a riempire le molte lacune di tua competenza (come il buco nell’NHS), dar vita a nuove imprese e creare - non prendere - posti di lavoro.

Allora stavi scherzando? Dai, a me puoi dirlo, è un diversivo pre-elettorale?

So che il flusso incontrollato è pericoloso, so che ti può arrivare di tutto, mele marce comprese, e quelle vanno fermate.  
Ma ci dev’essere una strada migliore per tutti. 
Per esempio diminuire la “zona grigia”, il tempo di ambientamento , in cui l’immigrato ancora non si è integrato. 
I soldi che vuoi risparmiare in benefit, investili nel potenziare il sistema di advisor del fantastico National Career Service, che mette in condizioni uno straniero di comprendere da vicino le regole e il mercato del lavoro, di compilare un buon CV, di capire quale strada scegliere. 
Aumenta i corsi d’inglese, perché lo so che uno dovrebbe impararlo prima, ma la maggiore difficoltà di integrazione parte dalla comunicazione. Io lo so, ci sono passata...

Te lo dico col cuore, se questo paese non fosse più un’ “Open Country”, come una volta hai detto, sarebbe un peccato.


Yours sincerely,

Monica


*Portoghesi, Italiani, Greci e Spagnoli; simpatico acronimo coniato dal quotidiano Sun

Qui ci sono articoli interessanti sulla questione:
Repubblica.it
Qui il discorso completo di Cameron: bbc.co.uk

Rap di CassetteBoy creato dai discorsi di Cameron, Farage & Co, geniale...

giovedì 23 aprile 2015

Shelley The Blacksmith

London Museum of Water & Steam, il Museo del Vapore, una ex stazione di pompaggio dell’800, a Kew Bridge
Sono all’esterno della struttura e già mi pregusto le foto che farò. 
Datemi ingranaggi, ruote dentate, tubi, manometri, possibilmente vecchi, e mi fate felice. Preciso che non capisco nulla di tecnologia, nemmeno della più elementare, ma non importa. Non mi interessa il processo, i risultati, non il funzionamento del meccanismo ma la sua forma.

Devo aver avuto una specie di imprinting quando ero piccola. Mio padre era progettista meccanico e in alcuni periodi lavorava fino a tarda sera nella stanza dove dormivo insieme ai miei fratelli. Non c’erano i pc allora (ebbene sì, signori, c’è stato un tempo in cui le cose si facevano senza pc o smartphone…), ma un enorme tecnigrafo sul quale erano incollati strati e strati di fogli lucidi disegnati a matita. 
Un universo di linee tratteggiate, frecce, quote, sezioni di pezzi meccanici. 
I fogli si spostavano e i pezzi combaciavano, ruotavano, si incastravano l’uno nell’altro. Era uno spettacolo bellissimo. Mai più dimenticato.


Ma sto divagando. Dunque sono al museo, le persone che mi accompagnano devono incontrare una dei vari artisti che ha lo studio all’esterno della struttura. Di lei non so nulla, se non che si chiama Shelley.
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Ed ecco che da una porta buia in una parete di mattoncini sbuca una figura imponente in gilet di pelle e scarpe antinfortunistiche. 
Molto più alta di me (ma per questo ci vuole poco…), capelli bianchi con una sfumatura bionda alle punte, raccolti in una coda, sguardo penetrante, azzurro, vivacissimo, bel sorriso da cui spuntano denti d’oro, mani nodose. 
Non mi stupirei se avesse una benda sull’occhio e una pistola al cinturone.

Il maglione che porta sotto il gilet è bucato vicino alle maniche. 
Sono le scintille. 
Shelley Thomas è una Blacksmith, una donna fabbro, ella domina il fuoco, usa la forza, una tecnica millenaria, piega i metalli al suo volere per creare grandi cancellate o piccolissimi monili. 
E questo è un personaggio! Mi serve! comincio a pensare…

I miei amici parlano con lei di workshop sui gioielli, io li ascolto appena, resto col mezzo sorriso ebete e lo sguardo fisso su di lei a cercare di imprimere nella memoria i particolari, gli anelli alle dita, una strana spilla appuntata al gilet, probabilmente una sua creazione… non dico una parola, ho una sola domanda come un mantra in testa: “Can I take a picture? Can I take a picture? Can I take a picture?...”, posso fare una foto? Non ho il coraggio, non ci conosciamo, mi prenderà per matta (e non sbaglierebbe di molto). 

Ci salutiamo e io faccio i miei scatti al museo ma una volta a casa corro a cercarla sul web. 
Soprattutto trovo l’elemento mancante per il disegno che ho in mente, il super-tecnologico casco protettivo che usa per lavorare, in una bella foto sul suo sito.

Ecco qua, glielo piazzo in testa. Shelley The Blacksmith è completa.

Qui potete trovare il suo sito e la sua paginafacebook.

mercoledì 1 aprile 2015

Italians Vs Italians

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Bozza cover per un progetto sull'Inno d'Italia, Paramica Edizioni, mai pubblicato - 
Una sorta di schizofrenia coglie gli emigranti italiani delle ultime generazioni. 
“Non andare a lavorare con gli italiani, ti sfruttano e ti trattano male”
“Che fastidio a Portobello, sentivo parlare solo italiano!”. 
“Non mi piace quel posto, è pieno d’italiani.” 
E, scusa, noi cosa siamo??? 
A volte cado anch’io in questa trappola, se sento parlare italiano nella tube (talvolta così ad alta voce che non posso far a meno di sentire, sigh), provo un senso di fastidio. Stento a riconoscermi nei miei simili.
È come se dicessi: Io?! Io no! Mica sono come loro? Sono integrata io, vivo qui, mi tengo sulla destra quando sto sulla scala mobile io, che credete?!

Certo, le faccende politiche degli ultimi anni hanno contribuito non poco a farci sentire lo zimbello d’Europa e del mondo, il marchio di mafiosi e corrotti è uno stereotipo pesante da sopportate ed è vero: siamo piuttosto chiassosi, gesticoliamo, siamo invadenti… ma c’è un problema più profondo alla base. La mancanza di un senso di appartenenza, coesione, patria (se vogliamo usare questo termine), lo so che la nostra storia non ci ha aiutato affatto a sentirci Paese, ma non voglio passare la vita a dissimulare, far dimenticare ciò che fa parte di me, insomma mi fa tristezza pensare: sono italiana ma non tanto.

Mi spiegavano che qui non c’è qualcosa come la Little Italy americana, non c’è una comunità forte che ha colonizzato interi distretti, a differenza di molti altri gruppi. 
Forse neanche la vorrei, in fondo sono andata via anche per scrollarmi di dosso certi meccanismi che ci appartengono culturalmente e non vorrei ritrovarne la fotocopia londinese.

Eppure dagli italiani che ho conosciuto qui ho avuto favori, aiuto e gentilezze disinteressate. 
Ho passato ore al telefono a farmi spiegare come funzionano le cose, ho ricevuto calore e supporto, ed ho cercato di darne ad amici e conoscenti che arrivavano qui dopo di me. 
Perché è così che si fa.

Perché quando uno arriva qui è solo e smarrito e un po’ di calore umano aiuta a superare le difficoltà.

Forse come popolo abbiamo qualche problema, ma presi uno ad uno siamo proprio brave persone.