Pino Daniele portrait ©Monica Auriemma |
“…Pe nuie ca ‘nce chiagnimm’o cielo e Napule /
comm’è amaro ‘stu pane![1]”, “E cambia panettiere!!!”.
Leggenda
vuole che dalla platea si levasse questa risposta alla fine della canzone sugli
emigranti, zeppa di retorica, perché la tragedia strappacuore si stemperasse in
una risata.
Non avrei mai creduto che un giorno anch’io avrei pianto lacreme napulitane.
Ebbene, il terzo Natale Londinese ha messo a dura prova
l’emotività della povera emigrante partenopea, già decisamente incline al
pianto. Approfittavo delle feste (altrui, io ero inchiodata nel mio antro oscuro, a tentare di consegnare un
libro) per sentire almeno alcuni tra amici e parenti che non vedo da parecchio.
Sarà la lontananza, la situazione drammatica italiana, un senso di insoddisfazione
generale, i dolori personali e quella vaga sensazione di abbandono ma nove
chiamate su dieci si concludevano immancabilmente in pianto. Io di qua e loro
di là. Una tragedia.
Hai voglia di fare la
forte, di dire che no, no, non ti manca affatto la tua terra, che stai bene
così e non torneresti indietro, il tessuto di affetti che è cresciuto con te
risente terribilmente la lontananza, nonostante il telefono e internet.
E poi Napoli… una specie
di conto in sospeso, qualcuno con cui hai litigato tempo fa e non hai il
coraggio di dirgli che gli vuoi sempre bene, perché devi mantenere il punto.
Napoli che la vai a trovare ogni volta come se fosse un genitore che invecchia,
che muori dalla voglia di vederla e poi non vedi l’ora di scappare perché lo
sai che litigherete di nuovo.
Tutte le volte che ci vado mi concedo il rito del
Saluto al Mare. Passo davanti all’Accademia di Belle Arti in cui ho speso circa
10 anni della mia vita, attraverso spedita Via Toledo, mi affaccio da Santa
Lucia, resto un po’ in silenzio, respiro, me ne vado.
Ogni volta con in testa
questi versi: “chi tene 'o mare/'o sape ca
è fesso e cuntento / chi tene 'o mare 'o ssaje/nun tene niente...[2]”
E mi ripeto che sì, ho fatto bene.
Che adesso, qui, riesco ad immaginare un futuro, posso
concedermi la gioia di fare progetti per la mia vita, e credere che forse si potranno
realizzare, mentre molti (troppi) dei miei conterranei si accontentano del
mare, del sole e tirano semplicemente avanti, che oltre l’immediato non si può
guardare.
Per non arrendermi all’amarezza e al pessimismo, dovevo andarmene, o
soccombere. Ho fatto la mia scelta. E so che per tutta la vita farò i conti con
questa mancanza.
Fantastici pensieri per
tirarmi su, ottimo, ottimo inizio del 2015! Ma non bastava. Doveva arrivare la
notizia della morte di Pino Daniele.
Le lacrime sono diventate
fiume. Giorni e giorni. Non chiamavo nessuno per non piangere di nuovo. Vedevo le immagini del flash mob e del funerale, volevo essere lì, io che evito adunate e
manifestazioni, per la prima volta ho desiderato ardentemente essere lì, casa
mia.
Leggevo tutto quello che potevo, disperatamente assetata di notizie[3].
Amici
mi mandavano messaggi come se mi fosse morto un parente. Eppure è un dolore che
non avrebbe logica, insomma, non è che fosse DAVVERO un mio parente, non lo
conoscevo neanche di persona, non sono musicista, non ho mai avuto a che fare
direttamente con lui.
Ho cercato di capire, ho pensato che era perché sono
lontana che tutto si amplifica, ho pensato che è perché ho 46 anni e negli anni
’80 ero adolescente, ho pensato che forse non piangevo l’uomo, l’artista, forse
io, come moltissimi, piangevo il simbolo del mio recente passato. “E’ come se
fosse caduto il Maschio Angioino” ha detto Nino D’Angelo. Aveva ragione. Il
silenzio di duecentomila persone (così “innaturale” per i napoletani) è stato
più eloquente di tanti discorsi.
Non sono in grado di fare
un’analisi storica approfondita, non ne ho gli strumenti. E’ solo che questa morte mi ha costretta a
ricordare. Chi ero io in quegli anni e che cosa stava succedendo a Napoli. Ci
stavo dentro e non me ne rendevo conto. Non ci ho mai pensato.
C’è stato un tempo in cui
eravamo fieri di essere napoletani.
Ed era un tempo oscuro
per quello che ricordo, la fine degli anni settanta, si usciva a pezzi
dall’austerity, l’inflazione e i miniassegni al posto del denaro, la crisi
energetica, per la prima volta conobbi il termine cassa integrazione, il
flagello che si abbatté in casa col contemporaneo (imprevisto) arrivo di mio
fratello, quarto figlio dopo otto anni da me.
Il clima era pesante, percepivo
di essere povera (anche se il pane non mi è mai mancato).
A Napoli si parlava
della Nuova Camorra Organizzata , della Droga, quest’entità astratta che sapevi
essere il Male Assoluto ma non capivi se si fumava, si beveva, si iniettava…
Tempo oscuro dicevo, ma
ricchissimo di fermento culturale, dovunque, a Napoli in particolar modo. C’era
un grosso lavoro di ricerca sulle tradizioni popolari in tutta Italia, mi
arrivavano gli echi de “La Gatta Cenerentola” di De Simone e la Nuova Compagnia
di Canto Popolare, ma per me ancora bambina erano fenomeni
troppo intellettuali, li assorbivo, senza comprenderli se non anni dopo.
A casa mia non si parlava
napoletano, che pareva brutto.
Il dialetto era permesso solo come esercizio di
cultura, per le canzoni (quelle antiche, la sceneggiata e i neomelodici non
erano roba per noi), il Teatro, un
linguaggio tragico e comico ma datato, i nostri due pilastri: Eduardo,
Totò.
E poi arrivò “Na tazzulella e’ cafè/ c’a sigaretta
a’coppa pe’ nun vere’/ che stanno chine e sbaglie/ fanno sulo ‘mbruoglie”[4], il
messaggio era chiaro perfino a me, era qui e ora, qualcuno ci stava
dicendo di svegliarci dal torpore, di mollare i contentini come sole, mare,
caffè. “E il mare? Il mare sta sempe là
/tutto spuorco, chin’e’ munnezza/ e nisciuno o vo’ guardà”[5].
Questo Pino Daniele aveva una potenza nel suono e nella voce che non poteva non
arrivarti, ti mostrava Napoli senza fronzoli: “ ’na carta sporca/ e nisciuno se ne ‘mporta”[6],
ti parlava di “tutte e’ paure/e nu popolo
ca cammina sotto ‘o muro” [7].
E io che vivevo quell’età stranissima tra l’infanzia e l’adolescenza in cui
cominci a sviluppare il senso di appartenenza al gruppo al di là del nucleo
familiare, mi chiedevo perché mai il mio popolo camminasse sott’o muro, di che avevamo paura? Eravamo Napoletani! Lo
consideravo ancora un valore aggiunto.
Imparavamo a memoria gli
sketch de La Smorfia di Troisi , li
recitavamo sul terrazzino delle mie amiche, il nostro palcoscenico.
Sentivo
parlare del Neapolitan Power e del Blues, del Jazz, senza capire di cosa si trattasse, ma mi piaceva. E cantavo a
squarciagola “Je so’ pazz/Nun ce scassate
o’ cazz!” [8] abbassando
la voce sull’ultima parola, per non essere ripresa dai grandi.
Ci eravamo trasferiti dalla città in un paesino invero piuttosto brutto, appena al di fuori della periferia napoletana, che non riconoscevo come mio, ci tenevo a dire che ero di Napoli, cittadina e non “paesana”.
Androni bui, rivestiti di
plastica marrone che si ostinava invano ad imitare il legno, portoni di
alluminio anodizzato, il condominio/casermone che chiamavamo Il Parco, microcosmo
di vita comunitaria, faceva da sfondo alla mia infanzia, coi suoi personaggi mitici: il
femminiello, ragazzo gay aspirante
stilista, “chill’ è nu’ buono guaglione/ sogna la vita coniugale/ ma per strada
poi sta male perché si girano a guardare”[9]. La
Rossa (per via dei capelli) dal numero imprecisato di figli avuti da un
numero imprecisato di partner, con un passato di vita da strada, e un presente
di contrabbando di sigarette. Gli invisibili,
agli arresti domiciliari, non ne conoscevo le fattezze ma sapevo che c’erano.
Il
confine tra legale e illegale, tra persone per bene e delinquenti era sempre
molto labile.
Il terremoto dell’80 e la
città in ginocchio, mi sentivo importante anche nella tragedia, come se quando
succedeva qualcosa a Napoli, succedeva più forte.
Il caos dei soccorsi e dei finanziamenti, le mani
della camorra sulla ricostruzione.
La
musica sempre più importante nella mia vita di ragazzina: la radio libera che
si sentiva a raggio condominiale
creata dal nerd del palazzo affianco,
con le dediche al citofono invece che al telefono.
Dopo le medie volevo fare il
Liceo Artistico.
- Ma perché non fai l’Istituto d’arte a Capodimonte? Impari a
fare la ceramica…
- Ma la ceramica di Capodimonte mi fa schifo…
- Ma al Liceo
Artistico gira la droga…
- Ma secondo te sono così scema che mi piglio la
droga?
Tra un “ma” e l’altro la spuntai. Fu forse per mantenere la promessa
fatta a mia madre che non sono stata mai capace di farmi una canna, fumare una
sigaretta intera e sono astemia? Capisco che lei avesse paura di mandarmi da
sola fino a Napoli, a 13 anni ero
alta un metro e trenta e sembravo una bambina piccola, un pulcino nella “Metropoli
Tentacolare”.
Eppure per me fu il massimo, riappropriarmi della mia città,
essere finalmente a casa.
Napoli mi appariva così
bella, ci passavo tutto il tempo che potevo.
Era l’età della perdita di fiducia in se stessi e del bisogno di crearsi
un modello. Mi accorgevo di non essere quell’artista eccezionale che mi avevano
fatto credere, fuori dall’ambiente ristretto del paesino nel quale ero una
spanna più avanti degli altri, mi confrontavo con tutti quelli che in disegno
avevano vero talento, forse fu allora che cominciai a cancellare (da piccola i
miei disegni erano fatti velocemente, a mano sicura, senza incertezze).
Mi
accorgevo che i corpi dei miei compagni assumevano sembianze adulte mentre il
mio restava dolorosamente bambino.
Mi sceglievo il modello dell’artista/intellettuale senza esserlo, mi
vestivo come se mi infilassi in un sacco sperando di essere invisibile e di compensare
con la conversazione, il talento e lo humour, un appeal che il fisico non mi
consentiva.
Mi aiutavano I film di
Massimo Troisi di cui tutti sapevano le battute a memoria, e poi Così parlò Bellavista, l’ironia a Napoli
mi sembrava più bella.
Quell’anglo-napoletano “Yes, I know my way/ ma nun’è addo’ m’è purtato tu”[10],
arricchiva il nostro gergo, localissimo ma per noi universale. Fieri eravamo
della nostra lingua.
Maradona al Napoli (del calcio non me ne fregava niente ma
la città era entusiasta e io mi accodavo). Le Vele di Scampìa e lo spaccio, la
guerra di Camorra, l’omicidio Siani, le manifestazioni a scuola.
Noi, generazione sfigatissima, disprezzata dai
fratelli più grandi, che loro sì che avevano lottato, loro erano andati in giro
a tirare molotof (ma che bravi…) e a
prendersi a mazzate coi fascisti (ma bravissimi!) mentre noi litigavamo per gli
zainetti-dell-invicta, anzi, “gli altri”, io, l’artista intellettuale, lo zainetto-dell-invicta non lo guardavo
nemmeno (anche perché non me lo potevo permettere); loro avevano avuto i Led
Zeppelin e noi appresso ai Duran Duran.
Mi innamoravo regolarmente di ragazzi
(possibilmente “tormentati”) che non mi corrispondevano, ma diventavamo amici, ci
scambiavamo le cassettine, ascoltavo la loro musica, e così mi immergevo nei
Pink Floyd perché piacevano a uno e tutto l’Hard Rock che le mie orecchie
riuscivano a sopportare perché piaceva a un altro (ma i Black Sabbath no,
proprio non ce la facevo), più spesso ascoltavo la New Wave britannica, a volte
si litigava sui Duran ma su Pino Daniele eravamo tutti d’accordo.
La musica era
ormai un pezzo di me.
Forse perché ero
adolescente e tutto mi sembrava tragico o magnifico, forse perché quelli furono
anni a modo loro speciali, li ricordo come gli ultimi in cui l’appartenenza a
Napoli era spensieratamente piena e orgogliosa, Daniele, Troisi e alcuni altri
potevano essere duri e maltrattarla perché erano “dei nostri”, una spinta
autentica a destrutturare il vecchio, a cambiare tutto.
E poi? Le spinte al
cambiamento ci furono anche dopo, certo, gli Almamegretta, i 99Posse, il Teatro
e il cinema napoletano, Martone, Corsicato, il sindaco Bassolino e il sogno (infranto) di una città diversa, io uscivo
dall’Accademia di Belle Arti piena di speranze...
Questo è un lavoro, ma non ti posso pagare… Assistente
all’Accademia! Ma senza compenso… Solo un gettone di presenza… Devi fare
esperienza… Ti pago in nero… Allora non vuoi fare la gavetta?...
L’eccezione diventava la norma, l’aberrazione il
quotidiano, l’orgoglio lasciava il posto alla rassegnazione, la città era
sempre più difficile da vivere, da sostenere anche nel quotidiano.
Facevo
quello che capitava, il mio talento era sempre al servizio di qualcuno o di
qualcosa in cui non mi riconoscevo più, il Teatro che avevo mitizzato, a volte
si rivelava un covo di serpi.
Anch’io mi sono accontentata, e ho tirato avanti finché ho potuto,
poi mi sono allontanata pian piano, fino ad andarmene sbattendo la porta.
“Voglio di più/ di quello che vedi/ voglio
di più/di questi anni amari”[11]
Napoli scusami, forse ci
ho provato, di sicuro non ci sono riuscita.
Pino scusami, non
piangevo solo per te, piangevo anche per me.
[1] “Lacreme napulitane” Libero Bovio,1925
[2] “Chi tene o mare” Pino Daniele, 1979
[3] Segnalo qui: il duro, lucidissimo post sul blog Errecinque, e l'emozionante ricordo
personale di Gaia Monti
[4] “Na tazzulella e’ cafè”, Pino Daniele, 1977
[5] “Il mare”, Id., 1979
[6] “Napul’è”, Id. 1977
[7] “Donna Cuncetta”, Id. 1979
[8] “Je so’ pazz”, Id.1979
GRANDISSIMA Monica Auriemma! Mok <3 :D
RispondiEliminaGrazie Isabella, non sai quanto mi serva.. =)
EliminaPost lucido e umanissimo. Hai tutta la mia solidarietà ... mediterranea. Un caro saluto da Palermo.
RispondiEliminaGrazie...credo che non sia solo un luogo comune, pare che i napoletani e i palermitani siano estremamente simili... =) =) =)
EliminaPiango piango e piango ,come pino ha dato voce a molti napoletani in musica tu sei riuscita a dare voce a pino ed a cio che lui ha rappresentato per molti di noi ,anche lui so che spesso faceva una corsa in macchina a salutare il mare segno di quanto potesse amarla e di quanto potesse starle stretta. Sono ormai convinta che chi la ama davvero questa città sono proprio queli che nn ce la fanno, nn riescono a vederla morire nella propria immondizia per colpa proprio di chi ci vive ed è sempre troppo tardi per cambiare le cose. Ho rivissuto con te, nelle tue parole la mia vita e nn penso di essere la sola grazie per questo dono, grazie di riuscire a descrivere sentimenti con tanta passione e grazie di essermi amica ti voglio tanto bene sempre lo sai
RispondiEliminaadesso mi commuovo un'altra volta... e basta!!! =) =) =)
Eliminap.s. forse so chi sei ma se la prossima volta ti firmi, sarò sarò sicura... eheheh!
Non sono napoletana, ma Pino Daniele mi piaceva tanto. Un post bellissimo, molto personale.Grazie.
RispondiEliminaGrazie infinite a te! =)
EliminaGrazie Monica per questo post cosi intimo, cosi umano. Io non sono di Napoli, eppure nel tuo racconto ritrovo parti del mio passato, di un passato a cui non penso spesso. Mi sono commossa.
RispondiEliminaAnche se non ti conosco, ti mando un abbraccio forte.
Francesca Q.
e io accetto l'abbraccio, che fa tanto bene allo spirito! e ricambio! =)
RispondiEliminaChe bello, trovare questo volto sorridente nella bacheca di Blogger! E così anche a Londra si soffre il mal d'Africa... Da figlio del sud emigrato e quasi coetaneo condivido molte delle cose che hai scritto: la dipartita del buon Pino è stata una doccia fredda, a ricordarmi che sono cresciuto e che mi trovo altrove. Ma non demordiamo, vero?
RispondiEliminaCaro Doc, come sempre colpisci nel segno, è proprio un mal d'Africa... di cui non mi ero pienamente resa conto finora, concentrata com'ero sul presente e sul futuro.
EliminaNon demordiamo, no, un po' addolorati ma guardiamo avanti!
Grazie... =)
Monica è mille culure....baci
RispondiEliminameraviglioso commento... baci a te =)
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