Il Signor B. "La Bottega dei sogni perduti" Lavieri Edizioni. Testo Manuela Salvi |
Sono particolarmente
sensibile a tutto ciò che rimanda alla parola rispetto nelle sue varie accezioni. Forse perché nella mia storia
personale ho dovuto “ricostruire” il rispetto per me stessa. Forse perché una
delle ragioni per cui sono emigrata è che vedevo il mio lavoro continuamente disprezzato,
svalutato, avvilito.
Insomma sull’argomento ho
le antenne tese e osservo con molta circospezione.
Non posso dire di essermi
fatta un’idea chiara di come funzionano le cose qui, almeno nel mondo del
lavoro.
Certo la cortesia con cui vieni accolta, i continui ringraziamenti per
quello che fai, l’idea che ti viene trasmessa, di essere un elemento prezioso,
piuttosto che la desolante sensazione di dover continuamente ringraziare tu per
lavori massacranti e magri compensi, sono un punto a favore del Regno Unito.
D’altra
parte questa può essere solo la superficie, ho ascoltato da amici più di un
episodio poco simpatico.
Comunque ho raccolto qualche indizio.
Parto da un episodio
accadutomi in uno dei miei lavori come cleaner.
Un giorno avevo difficoltà a
sbloccare una porta chiusa, cerco di spiegare il problema al portiere dello
stabile (mio diretto referente per quel lavoro), ovviamente ci metto una vita
con la mia fantastica proprietà di linguaggio.
Mentre inciampo sulle parole,
lui spazientito si alza di scatto, mi chiede di mostrargli il problema, sblocca
il meccanismo della porta e se ne va sbattendola e blaterando qualcosa di
incomprensibile.
Io gli chiedo scusa senza sapere bene per cosa e torno al
lavoro, un po’ arrabbiata in verità. Che
scortesia! E che ti ho fatto?! Va bene che mi esprimo male ma un minimo di
pazienza!
Alle dodici mi raggiunge
il Building Manager. Mi fa: - Ti chiedo
scusa per il comportamento del portiere, devi
perdonarlo, è in un brutto periodo…- io, decisamente stupita, minimizzo: -Sì, lo vedo un po’ strano, comunque è tutto
a posto, non c’è problema-. Fine.
Ma continuo a rimuginare.
Il “capo” che si scusa con l’ultima
arrivata per una cosa che neanche ha fatto lui e che in teoria non dovrebbe
sapere, non era presente e io non ne ho parlato…
Chi gli ha raccontato
l’accaduto?
Evidentemente il portiere, e perché? Che senso ha?
Cos’è, una specie
di codice d’onore tipo Samurai? Talmente buono d’animo e sensibile che, roso
dal rimorso per avermi maltrattata, non ha avuto il coraggio di scusarsi di
persona ed è andato a confessare il suo peccato al BM?
Possibile, ma più
verosimilmente, perché si è reso conto di aver fatto una cazzata che poteva
portargli delle conseguenze e questa era la cosa migliore da fare per lui.
Ho messo insieme un po’
di informazioni e riflettuto su due cose:
Primo: qui, anche
l’ultimo della gerarchia (una cleaner,
straniera, con un contratto temporaneo di pochi giorni, come me, per esempio)
ha diritto alla massima gentilezza, e in caso contrario ha il potere, attraverso il
complain (il reclamo, la lamentela)
di far passare un brutto momento a colleghi e superiori. Avrei potuto semplicemente
lamentarmi per rendergli la vita complicata. I comportamenti scorretti o arroganti non sono tollerati. La parola “rispetto” dunque, ha un
senso molto preciso.
Secondo: qui si evita lo
scontro diretto, ad ogni costo.
C’è tutto un percorso da fare: se hai un
problema col collega, non parli con lui ma col supervisor, se hai un problema
col coinquilino parli col proprietario, se la cleaner non pulisce a dovere non glielo dici ma ti lamenti con la ditta ecc…
Tutto questo ha il nobilissimo
intento, credo, di allentare le tensioni ed evitare conflitti, soprattutto tra
persone di nazionalità e culture diverse che coabitano lo stesso luogo.
Tra te
e lo scontro si pongono una serie di filtri per cui diminuisce il pericolo di
violenza, i tempi si diluiscono,
azione e reazione si allontanano.
Fantastico, sicuramente, ma c’è un rovescio
della medaglia.
Assisto ad una specie di svuotamento di responsabilità.
Io sono
arrabbiata con te ma non te lo dico in faccia, vado a riferirlo al tuo superiore e magari rincaro la dose. Come alle elementari: glielo dico alla maestra.
Questi a sua volta riprende il
subalterno (ma non prendertela con me, non è colpa mia, mi hanno fatto un
complain ) .
Ho potuto osservare da vicino questa pratica quando il responsabile, in un altro condominio dove ho lavorato, nel corso di una riunione stava molto
attento a rimproverarci tutti (gruppo di cleaners) con una serie di giri di parole, precisando che lui riportava solo le lamentele di un inquilino e che
con l’inquilino ci difendeva; ero quasi ammirata dal sapiente uso delle parole per far trapelare il messaggio dal non detto.
Così noi, a nostra volta non potevamo arrabbiarci con lui perché "ambasciator non porta pena"… Insomma…
Io non sono una litigiosa,
ma, sarà che sono del sud, sono cresciuta diversamente.
Credevo che mettere in mezzo altre persone
quando hai un problema con qualcuno, fosse infantile, credevo che certe
questioni si potessero sbrigare col diretto interessato senza stare a scomodare
i superiori.
Nell’universo mentale in cui ho vissuto finora, io non ci penso
proprio ad andarmi a lamentare per un unico episodio di scortesia, al limite
dico alla persona: - Amico, ma che
problema hai? - Abbi pazienza, oggi ho la luna storta - Non c’è problema - una
pacca sulla spalla e tutto finisce lì, in 5 minuti, senza stare a scomodare
l’intero management.
Ma a pensarci bene potrebbe andare diversamente: -Amico, ma che problema hai?- E lui mi
sferra un pugno sul naso perché nella sua cultura questa è un’offesa che si
lava col sangue.
Meglio che mi abitui ad un comportamento che evidentemente
assicura, se non la pace, almeno una “guerra
fredda” senza spargimento di sangue (ma con una fittissima rete di spie e
delatori).
Forse un liberatorio vafanguuuuu….
ogni tanto non sarebbe male.
Sì lo so...c'è un abisso culturale tra noi e loro. Essere "polite" è ben più che essere educati e/o rispettosi. Ma essere "polite" o, come si usa moltissimo ultimamente "politically correct", spesso non vuol dire essere rispettosi, solo formali.
RispondiEliminaTutti gli anglosassoni con cui interagisco per lavoro si lamentano perché noi italiani non diciamo mai "please". In realtà non diciamo mai (quasi mai) nemmeno "per favore". Cerchiamo di chiedere le cose in modo cortese, spesso utilizzando il tono di voce come mezzo per esprimere la nostra richiesta con gentilezza, ma certe sfumature son difficili da cogliere per chi parla un'altra lingua. Nelle e-mail di lavoro è bandita la formula "ti prego di....". Una volta un responsabile mi disse:"Si prega solo il Padreterno!" per cui io uso spesso la formula:"Ti chiedo la cortesia di...." oppure "Potresti cortesemente...?".
Quanto al "complain"... beh, qui è quasi un'offesa rivolgersi al superiore senza prima aver discusso e cercato di chiarire con il diretto interessato. Anche a me secca moltissimo se vengono a lamentarsi di uno dei miei collaboratori e non hanno cercato di chiarire prima con lui. Spesso chiamo subito il mio collaboratore, in presenza di chi si sta lamentando, per forzare un chiarimento immediato. Che spesso avviene, ma non senza aver abbondantemente alzato tutti la voce. Noi consideriamo una persona come persona seria chi ha il coraggio e la forza di dirti le cose "in faccia" e non "alle spalle".
Siamo mediterranei... meno forma, più passione.
Eh... hai colto nel segno... una via di mezzo sarebbe fantastica per tutti, mi mettono sempre di buon umore quando mi ringraziano, mi sorridono e mi chiedono come va, evitano che lo stress della giornata salga, la tensione si stempera, ma a volte non so se stanno per pugnalarmi alle spalle... ecco...una via di mezzo...pleeease! ma siccome sappiamo che non è possibile, io cerco di rimanere me stessa ma rispettando i codici di comportamento di qui, delicato equilibrio, si cammina sulle uova! =)
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