mercoledì 24 settembre 2014

Del Rispetto o della Guerra Fredda

Illustrazione per La Bottega dei sogni perduti-monicauriemma
Il Signor B. "La Bottega dei sogni perduti" Lavieri Edizioni. Testo Manuela Salvi
Sono particolarmente sensibile a tutto ciò che rimanda alla parola rispetto nelle sue varie accezioni. Forse perché nella mia storia personale ho dovuto “ricostruire” il rispetto per me stessa. Forse perché una delle ragioni per cui sono emigrata è che vedevo il mio lavoro continuamente disprezzato, svalutato, avvilito.
Insomma sull’argomento ho le antenne tese e osservo con molta circospezione. 

Non posso dire di essermi fatta un’idea chiara di come funzionano le cose qui, almeno nel mondo del lavoro. 
Certo la cortesia con cui vieni accolta, i continui ringraziamenti per quello che fai, l’idea che ti viene trasmessa, di essere un elemento prezioso, piuttosto che la desolante sensazione di dover continuamente ringraziare tu per lavori massacranti e magri compensi, sono un punto a favore del Regno Unito. 
D’altra parte questa può essere solo la superficie, ho ascoltato da amici più di un episodio poco simpatico. 
Comunque ho raccolto qualche indizio.

Parto da un episodio accadutomi in uno dei miei lavori come cleaner
Un giorno avevo difficoltà a sbloccare una porta chiusa, cerco di spiegare il problema al portiere dello stabile (mio diretto referente per quel lavoro), ovviamente ci metto una vita con la mia fantastica proprietà di linguaggio. 
Mentre inciampo sulle parole, lui spazientito si alza di scatto, mi chiede di mostrargli il problema, sblocca il meccanismo della porta e se ne va sbattendola e blaterando qualcosa di incomprensibile. 
Io gli chiedo scusa senza sapere bene per cosa e torno al lavoro, un po’ arrabbiata in verità. Che scortesia! E che ti ho fatto?! Va bene che mi esprimo male ma un minimo di pazienza!

Alle dodici mi raggiunge il Building Manager. Mi fa: - Ti chiedo scusa per il comportamento del portiere, devi perdonarlo, è in un brutto periodo…- io, decisamente stupita, minimizzo: -Sì, lo vedo un po’ strano, comunque è tutto a posto, non c’è problema-. Fine. 
Ma continuo a rimuginare. 
Il “capo” che si scusa con l’ultima arrivata per una cosa che neanche ha fatto lui e che in teoria non dovrebbe sapere, non era presente e io non ne ho parlato…
Chi gli ha raccontato l’accaduto? 
Evidentemente il portiere, e perché? Che senso ha? 
Cos’è, una specie di codice d’onore tipo Samurai? Talmente buono d’animo e sensibile che, roso dal rimorso per avermi maltrattata, non ha avuto il coraggio di scusarsi di persona ed è andato a confessare il suo peccato al BM?
Possibile, ma più verosimilmente, perché si è reso conto di aver fatto una cazzata che poteva portargli delle conseguenze e questa era la cosa migliore da fare per lui.

Ho messo insieme un po’ di informazioni e riflettuto su due cose:

Primo: qui, anche l’ultimo della gerarchia (una cleaner, straniera, con un contratto temporaneo di pochi giorni, come me, per esempio) ha diritto alla massima gentilezza, e in caso contrario ha il potere, attraverso il complain (il reclamo, la lamentela) di far passare un brutto momento a colleghi e superiori. Avrei potuto semplicemente lamentarmi per rendergli la vita complicata. I comportamenti scorretti o arroganti non sono tollerati. La parola “rispetto” dunque, ha un senso molto preciso.


Secondo: qui si evita lo scontro diretto, ad ogni costo
C’è tutto un percorso da fare: se hai un problema col collega, non parli con lui ma col supervisor, se hai un problema col coinquilino parli col proprietario, se la cleaner non pulisce a dovere non glielo dici ma ti lamenti con la ditta ecc… 
Tutto questo ha il nobilissimo intento, credo, di allentare le tensioni ed evitare conflitti, soprattutto tra persone di nazionalità e culture diverse che coabitano lo stesso luogo. 
Tra te e lo scontro si pongono una serie di filtri per cui diminuisce il pericolo di violenza, i tempi si diluiscono, azione e reazione si allontanano. 
Fantastico, sicuramente, ma c’è un rovescio della medaglia. 
Assisto ad una specie di svuotamento di responsabilità
Io sono arrabbiata con te ma non te lo dico in faccia, vado a riferirlo al tuo superiore e magari rincaro la dose. Come alle elementari: glielo dico alla maestra. 
Questi a sua volta riprende il subalterno (ma non prendertela con me, non è colpa mia, mi hanno fatto un complain ) . 
Ho potuto osservare da vicino questa pratica quando il responsabile, in un altro condominio dove ho lavorato, nel corso di una riunione stava molto attento a rimproverarci tutti (gruppo di cleaners) con una serie di giri di parole, precisando che lui riportava solo le lamentele di un inquilino e che con l’inquilino ci difendeva; ero quasi ammirata dal sapiente uso delle parole per far trapelare il messaggio dal non detto. 
Così noi, a nostra volta non potevamo arrabbiarci con lui perché "ambasciator non porta pena"… Insomma… 
Io non sono una litigiosa, ma, sarà che sono del sud, sono cresciuta diversamente. 
Credevo che mettere in mezzo altre persone quando hai un problema con qualcuno, fosse infantile, credevo che certe questioni si potessero sbrigare col diretto interessato senza stare a scomodare i superiori. 
Nell’universo mentale in cui ho vissuto finora, io non ci penso proprio ad andarmi a lamentare per un unico episodio di scortesia, al limite dico alla persona: - Amico, ma che problema hai? - Abbi pazienza, oggi ho la luna storta - Non c’è problema - una pacca sulla spalla e tutto finisce lì, in 5 minuti, senza stare a scomodare l’intero management. 
Ma a pensarci bene potrebbe andare diversamente: -Amico, ma che problema hai?- E lui mi sferra un pugno sul naso perché nella sua cultura questa è un’offesa che si lava col sangue. 

Meglio che mi abitui ad un comportamento che evidentemente assicura, se non la pace, almeno una “guerra fredda” senza spargimento di sangue (ma con una fittissima rete di spie e delatori). 

Forse un liberatorio vafanguuuuu…. ogni tanto non sarebbe male.

2 commenti:

  1. Sì lo so...c'è un abisso culturale tra noi e loro. Essere "polite" è ben più che essere educati e/o rispettosi. Ma essere "polite" o, come si usa moltissimo ultimamente "politically correct", spesso non vuol dire essere rispettosi, solo formali.
    Tutti gli anglosassoni con cui interagisco per lavoro si lamentano perché noi italiani non diciamo mai "please". In realtà non diciamo mai (quasi mai) nemmeno "per favore". Cerchiamo di chiedere le cose in modo cortese, spesso utilizzando il tono di voce come mezzo per esprimere la nostra richiesta con gentilezza, ma certe sfumature son difficili da cogliere per chi parla un'altra lingua. Nelle e-mail di lavoro è bandita la formula "ti prego di....". Una volta un responsabile mi disse:"Si prega solo il Padreterno!" per cui io uso spesso la formula:"Ti chiedo la cortesia di...." oppure "Potresti cortesemente...?".
    Quanto al "complain"... beh, qui è quasi un'offesa rivolgersi al superiore senza prima aver discusso e cercato di chiarire con il diretto interessato. Anche a me secca moltissimo se vengono a lamentarsi di uno dei miei collaboratori e non hanno cercato di chiarire prima con lui. Spesso chiamo subito il mio collaboratore, in presenza di chi si sta lamentando, per forzare un chiarimento immediato. Che spesso avviene, ma non senza aver abbondantemente alzato tutti la voce. Noi consideriamo una persona come persona seria chi ha il coraggio e la forza di dirti le cose "in faccia" e non "alle spalle".
    Siamo mediterranei... meno forma, più passione.

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    1. Eh... hai colto nel segno... una via di mezzo sarebbe fantastica per tutti, mi mettono sempre di buon umore quando mi ringraziano, mi sorridono e mi chiedono come va, evitano che lo stress della giornata salga, la tensione si stempera, ma a volte non so se stanno per pugnalarmi alle spalle... ecco...una via di mezzo...pleeease! ma siccome sappiamo che non è possibile, io cerco di rimanere me stessa ma rispettando i codici di comportamento di qui, delicato equilibrio, si cammina sulle uova! =)

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