Illustrazione da "La Bottega dei Sogni Perduti" Lavieri Ed. Monica Auriemma-
Una delle tante belle
sorprese che ho trovato in UK è che il giallo del semaforo scatta due volte:
una volta prima del rosso, un’altra prima del verde. Semplice ma a mio parere
geniale.
Da automobilista penso al semaforo come fonte di grandissimo stress: occhio fisso alla luce che il
verde non ti colga di sorpresa, polpacci in tensione pronti allo scatto
sull’acceleratore, a volte sgasate inutili per evitare di spegnere il motore,
che nell’attimo stesso in cui scatta il verde partono i clacson di quelli che
stanno dietro (pure loro tutti stressati).
Ripeti questo ad ogni semaforo e
pensa quanta salute guadagneresti se avessi un giallo che ti avverte per
prepararti a ripartire.
Non so perché questa
pratica sia assente in Italia. Forse abbassare il livello di stress di chi
guida non è nelle priorità del nostro codice, forse all’automobilista italiano
medio piace sentirsi pilota di Formula 1, gli piace essere sempre in tensione,
pronto allo scatto, all’attacco.
Confesso che a me guidare
non è mai piaciuto. Ho preso la patente tardissimo e con riluttanza, solo per
necessità.
Per di più ho imparato a guidare a Napoli, e se qualcuno si sta
chiedendo: “Perché, che differenza fa?” risponderò che equivale più o meno a: sono stata nella legione straniera, sono
sopravvissuta nella Giungla, ho fatto la guerra, una cosa del genere.
Guidare
per le strade di Napoli dovrebbe essere riconosciuta come “pratica altamente
usurante” , anche se non lo fai per lavoro, e consentire di anticipare la
pensione, diciamo, un anno ogni dieci di guida. Parlo sul serio.
Non è che ci tenga
particolarmente a parlar male della mia terra (ho visto che la situazione in
altre città italiane, come Roma per esempio, non è certo rosea), ma è il posto
dove sono cresciuta e che conosco meglio, io so per certo che il codice della strada a Napoli ha altre regole,
non scritte, magari contrarie alla legge, eppure in qualche modo funzionali.
Partiamo dal fatto che la
circolazione è difficilissima, causa la morfologia del territorio, la scarsità
di mezzi pubblici e lo stato delle strade. La situazione in centro è in qualche
modo migliorata negli anni con l’introduzione delle ZTL e di un po’ di rotonde
ma, insomma, è una città in perenne emergenza.
Per cui il cittadino sente il
dovere di “interpretare” con una sorta di furbo buonsenso quelle che altrove
sono norme tassative.
Voglio dire che la regola a Napoli può essere infranta, col
beneplacito di tutti, se devi risolvere un problema, e siccome è difficile che
non ci siano problemi, la cosa avviene piuttosto spesso.
Se c'è un problema non si aspetta l'autorità (vigili, polizia, ecc...) si parte dal presupposto che l'autorità sia assente, o incapace, e ci si organizza da soli. Ho visto coi miei
occhi autisti di autobus indire piccole
assemblee con i passeggeri, per trovare strade alternative anche se fuori
percorso, in caso di particolari ingorghi.
I colori del semaforo non
vengono percepiti come comandi, piuttosto come consigli (questa devo averla
sentita da qualche parte, mi scuso se ho rubato ma rende bene l’idea).
Il rosso a Napoli ha delle
sfumature.
C’è il rosso fuoco, perentorio, quello di strade a scorrimento veloce, incroci trafficati, lì non c’è storia, ti devi
fermare, il napoletano non è un kamikaze.
Poi ci sono quei rossi un po’
annacquati, sai che la strada che incroci è poco trafficata, fermati un po’,
dai un’occhiata, ma se non viene nessuno, non stare a perdere tempo, vai!
E poi
ci sono i rossi quasi gialli, quelli “inutili”, che magari stanno dopo
vicoletti praticamente deserti, tu te ne accorgi, se non arriva nessuno, che
necessità c’è di fermarsi?
Ho provato di persona la sgradevole sensazione dello
strombazzare di clacson dietro di me quando ero ferma ad uno di questi. A
volte l’ho fatto apposta, sono rimasta ferma lì, inchiodata al semaforo rosso,
semplicemente perché volevo “sentirmi libera” di rispettare una regola che
tutti ignoravano.
D’altro canto anche i verdi hanno le loro sfumature.
Difficile
che un napoletano passi col verde a cuor leggero. Non si fida. Lo sa che ci
potrebbe essere qualcuno che dall’altro lato sta pensando di buttarsi.
I sensi unici non sono
quasi mai veramente unici, diciamo che sono sensi unici alternati.
A volte sono
stradine che ti permetterebbero di tagliare un percorso accorciando di
parecchio ed evitando il traffico, e tu che fai? Non ci provi? Lo fanno tutti!
Spesso l’ho fatto anch’io (col cuore in gola).
Il bello è che dall’altro lato
lo sanno. Quelli che procedono nel senso giusto si armano di pazienza e sanno
che ogni tanto devono rallentare o accostare al marciapiede per far passare i
“fuorilegge”. Tanto capiterà anche a loro di vedersi ricambiato il favore prima
o poi.
Amici mi hanno raccontato che chiedendo indicazioni ad un vigile si
sentirono rispondere: “La strada giusta è di là, ma vi infilate in un ingorgo,
ci potreste impiegare un’ora, di qua c’è un vicoletto che vi fa sbucare
dall’altro lato, sarebbe senso unico… facciamo così: io mi giro dall’altra
parte e voi passate”
Il pedone a Napoli non ha la precedenza, MAI.
E lui lo sa (se è
napoletano). E se non lo è? Conoscete il vecchio detto: Vedi Napoli e poi muori? Beh, potrebbe avere più di un significato…
Ci si allena da bambini,
imparare ad attraversare la strada è stato un grande momento di passaggio della
mia infanzia.
Come una di quelle prove d’iniziazione delle tribù africane: dimostri
il tuo coraggio e la tua prontezza di riflessi.
Ignorando le strisce pedonali,
che tanto non verranno prese in considerazione da nessuno, si attraversa quando
e dove si può, spesso invocando la benedizione di forze ultraterrene.
Il pedone
napoletano non può rilassarsi, ruba quel momento di vuoto di traffico, impara a
calcolare i tempi e la velocità dei veicoli e l’automobilista d’altra parte si
aspetta sempre che qualcuno sbuchi
all’improvviso ed è pronto a frenare.
Il napoletano ha un'insofferenza profonda,
quasi atavica, alle regole, le sente come imposizioni: Io non voglio attraversare dove mi dici tu, dov’è stabilito. Voglio
passare dove mi pare. So che rischio la vita, ma la vita è mia e me la gestisco
io!
Da quando sono qui a
Londra continuo a stupirmi del fatto che appena mi avvicino alle strisce,
preparata tranquillamente ad aspettare il passaggio di due o tre auto, il
veicolo più vicino immancabilmente si fermi per farmi passare, a volte si ferma
PRIMA che io capisca di dover attraversare, no, dico, che fai? Sei telepatico?
Il
parco dove corro è tagliato da alcune strade, con strisce pedonali fuori ai
cancelli, gli automobilisti si fermano a prescindere, quando corro non sono neanche
costretta a rallentare per attraversare.
Sempre felicemente incredula, faccio
un cenno di ringraziamento con la mano. Mi sento in un altro mondo.
D’altra parte anch’io da
pedone devo rispettare i semafori e gli attraversamenti (perchè qui mi concedo il lusso di non guidare, che coi mezzi pubblici mi sposto dove voglio, e comunque ho una fifa blu perchè si tiene la sinistra invece della destra).
A volte il vecchio
istinto vorrebbe riemergere. C’è una strada sotto casa che dista in linea
d’aria pochi metri, con pochi passi sarei dall’altro lato, solo che è ad un
incrocio di cinque strade, ed io devo fare un percorso a U passando ben 4
semafori per arrivarci.
Nel profondo mi ribello, la mia mente non comprende
perché io debba fare tanta strada e interrompere il cammino tante volte per
andare di fronte… ci ho anche provato una volta a passare “di traverso” è stato
impossibile, mi devo rassegnare a rispettare la legge, acc...
Ovviamente, così come ci
sono anche automobilisti disciplinati a Napoli, qui ci sono i trasgressori, e
le conseguenti multe.
Un giorno il mio compagno, che guida per lavoro, si è
visto recapitare una multa per eccesso di velocità, accompagnata da una lettera.
Gli si diceva Scegli: la multa la paghi comunque ma puoi perdere
punti sulla patente o venire ad un corso sulla sicurezza stradale.
Oh, no…
che cos’è, una specie di gogna? Verrai aspramente redarguito e marchiato
d’infamia come indisciplinato?
Comunque, pur di non perdere punti è andato.
Alle presentazioni sembrava uno di quei corsi di auto-aiuto, tipo: ciao a tutti, sono Mark e ho investito un
pedone… un applauso d’incoraggiamento a Mark…
Poi pare che abbia avuto
informazioni utili e imparato parecchio su come gestire il mezzo in situazioni
difficili, insomma, alla fine gli è piaciuto!
Penso a come sarebbe
bella una cosa del genere anche a Napoli… ma forse il napoletano medio pur di
non sottoporsi all’onta di sentirsi dire quello che deve fare, perderebbe i
punti (e poi troverebbe un modo non proprio legale di riguadagnarli). Sigh.
Questo è l’inizio di
“Così Parlò Bellavista” film di 30 anni fa, col famoso “ingorgo a croce
uncinata”
E, per
Par Condicio, direttamente da Milano, Gioele Dix: L’automobilista ...zzato come una bestia:
Avviso a tutti gli
illustratori: Il passaggio dall'editoria italiana a quella inglese può essere
un trauma, soprattutto se devi lavorare per la scolastica (e non sei abituato,
come me).
Prendo ad esempio uno dei
miei primi lavori inglesi: due illustrazioni riguardanti la Dinastia Shang per un
e-book dal titolo: “Wordsmith”, PearsonEducation.
Il primo grosso problema
è il Brief (o LA Brief, come dico io, tanto in inglese è uguale…), cioè la
descrizione del lavoro, che è una contraddizione in termini perché Brief viene
da BREVE, e in molti casi è più lunga del testo del libro in questione.
Io vengo da un mondo in
cui ti viene dato il testo, le misure, e al massimo un in bocca al lupo
(lasciandoti a volte in balìa di dubbi amletici sull’interpretazione) e mi
ritrovo qui dove ti dicono che tipo di paesaggio vogliono, gli oggetti, gli
animali ,quanto è verde l’erba, chi c’è, di che età, razza ed estrazione
sociale, cosa sta facendo, come è vestito e magari dov’era stato il giorno
prima e come si chiama il suo cane… è spiazzante!
Tanta precisione nelle
richieste ti obbliga ad un’accurata ricerca e documentazione visiva, ma, in
questo caso, hai beccato la Dinastia Shang (1600-1000 a.C.), così antica che le
immagini sono pochissime e così “sfigata” che nessuno si è degnato di farci un
film, che so, pugnali volanti, tigri e dragoni, quella roba lì.
Passi le ore a interrogarti
sulla forma dei cesti di vimini di 3000 anni or sono, e non è piacevole.
Comunque, immergersi in
un altro luogo e in un altro tempo è sempre un’avventura straordinaria per me,
è quasi la parte più bella del lavoro, sei travolta da stimoli visivi,
informazioni, e più cerchi e più trovi, anche se in questo caso i problemi
legati al poco tempo a disposizione e al fatto che molti dei miei libri di
riferimento fossero ancora in Italia, mi hanno fatto perdere un po’ la bussola.
Ecco il prodotto delle
mie fatiche:
Shang Dynasty-Wordsmith-family-monicauriemma
La prima tavola doveva
imitare una pittura cinese antica, con un nucleo familiare in un interno, genitori,
nonni, zii e pargoli di varie età, in una precisa posizione gerarchica, lasciando
alcuni spazi per il testo, dentro una cornice di bronzo stile Shang.
Per capire alcuni
passaggi del Brief ero costretta ad affidarmi a Google Traduttore che non solo
si ostina ad ignorare il genitivo sassone, ma, ormai ne sono certa, fa uso
massiccio di droghe: “a narrow-cuffed tunic” viene tradotto come “una stretta
ammanettato tunica” e “long hair should
be wearing it up in buns” è tradotto come “capelli lunghi dovrebbero essere lo
indossa in panini”.
Ma come vestivano strano questi cinesi, tuniche con le manette e panini sulla testa?
(le manette in realtà sono risvolti o polsini e i panini sono shignon, ma mi ci
è voluto un po’ per capirlo…)
Imitare la pittura
cinese, è una parola! E’ un meraviglioso universo parallelo: dimentica la
prospettiva come la conosci, la tridimensionalità e il chiaroscuro, lavora di
sintesi, di decorazioni, non mettere le ombre…
ci sono riuscita solo in piccola parte, cercando volti, pose, acconciature,
ho preso qualche scivolone, il risultato è un evidente compromesso, ma,
insomma, non è malvagio.
I clienti si sono detti
soddisfatti: “the frame really looks like it's made of bronze!”.
La cornice è in realtà la
somma di un disegno a matita che imita una decorazione Shang (l’unica cosa che
non manca alla documentazione del periodo sono i vasi in bronzo, vasi, vasi,
tanti vasi…), una texture fatta a tempera acrilica su vecchia tavoletta di
legno, qualche ombreggiatura e il mio genio creativo, of course… ;-)
La seconda tavola è una
scena di campagna, che mostra coltivatori di miglio al lavoro, padre e figlio,
con cani, pecore, un aratro in pietra tirato da buoi, una capanna e in primo
piano un baco da seta, il tutto condito da un testo piuttosto fitto.
Shang Dynasty-Wordsmith-farm-scene-monicauriemma
Ecco le domande che ti
assalgono: che forma avranno le scarpe di paglia di un contadino Shang? E
l’aratro di pietra tirato da buoi sarà accompagnato da uno o più uomini?
Com’erano le capanne 3000 anni fa? E le pecore cinesi? Siamo sicuri che fossero
come quelle che conosciamo noi? (Non lo sapevate? Sapevatelo!)
Per gli
abiti il Brief mi chiedeva: “loose cotton shirts (made from cotton) and
trousers made from hemp with shoes made from straw”. E mi raccomando, le bluse in cotone, i pantaloni
in canapa e le scarpe in paglia, che se mi accorgo che hai fatto le bluse in
canapa e i pantaloni in cotone sono guai!
Ragazzi, forse non sapete
con chi avete a che fare: fin da quando lavoravo in teatro avevo l’abitudine di
salvare dalla distruzione piccoli scampoli di stoffa di ogni tipo, tutti
scannerizzati e finiti in archivio.
Voi volete la canapa? E Monica vi da la
canapa. Voi volete il cotone? E Monica vi da il cotone!
Comunque è andata, dopo
un paio di discussioni via mail sulla lunghezza dei capelli del ragazzo, ce
l’abbiamo fatta, tutti contenti, illustratrice stremata ma appagata e perfino
pagata.
P.s. Altro consiglio per
gli illustratori italiani:
non vi azzardate a nominare i files con dei titoli
fatti di parole comprensibili, tipo “Farmer Scene” o “Family Scene”, come
stupidamente avevo fatto io.
Qua è tutto regolato e codificato, le
illustrazioni sono centinaia, da vari illustratori, e bisogna avere un codice
di identificazione (e poi gli inglesi se non usano abbreviazioni si sentono
male…) perciò le mie tavole si intitolano, molto poeticamente: R3_Yr4Shang_S6 e
R3_Yr4Shang_S7
Illustrazione per l'Assaggenda Sinnos 2012-Salgari: Maelstrom-monicauriemma
Chi vive a Londra deve
per forza familiarizzare con i centinaia di modi per dire pioggia, alcuni piuttosto
evocativi: liquid sunshine (quando piove col sole) , shower, solid rain,
e i vari storm, tempeste, temporali…
Confesso però che flash
flood (improvviso alluvione) non l’avevo mai sentito. E neanche mai vissuto.
Finora.
Erano le tre di un
venerdì pomeriggio di Settembre, quando sento arrivare la pioggia.
Niente di
strano, ovviamente, ma il fracasso dei tuoni è assordante, cosa insolita (qui
la pioggia è frequentissima, ma i temporali con tuoni e fulmini, piuttosto
rari), la pioggia cade con un’intensità e un rumore che mi stordisce.
Pochi
minuti e arriva la grandine, più che altro una sassaiola.
Dai vetri do
un’occhiata al minuscolo cortile sul retro, circondato dai muri delle abitazioni
circostanti, come ce ne sono tanti nelle case vittoriane, al di sotto del
livello strada, comunicante con la cucina tramite una porta e un piccolo
gradino.
Oh, oh, il tombino pare
non riesca a contenere tanta acqua e il cortiletto si sta trasformando in una
vasca… di fango…
Il rumore è sempre più assordante, il livello sale.
Il cuore accelera.
Tra il pian terreno e la cucina ci sono sei gradini, li scendo con un paio di
asciugamani in mano, forse dovrei metterli a protezione della port… troppo
tardi, l’acqua, scavalca il gradino esterno e invade la cucina.
Il livello sale ad una
velocità impressionante. Getto (inutilmente) gli asciugamani a terra e mi vivo
il mio primo flash flood.
E’ in questi momenti che di
solito do prova del mio self control: “CHE DEVO FARE, CHE DEVO FARE, CHE DEVO
FAAAARE???!!!”
Del mio profondo legame
con la natura: “E DAI, ADESSO BASTA, ADESSO SMETTILA! TI PREGO, BASTAAA!”
Della mia grande
spiritualità: “NAM MYO HO RENGE KYO...OODDÌODDÌODDDÌO! MAMMMAMIIIA!”, (buddismo,cristianesimo
e culto dei defunti, perfetto sincretismo religioso)
Tento di chiamare il mio
compagno Danilo, in strada di ritorno dal lavoro, non c’è linea.
Nella mia mente offuscata
si fa strada un concetto elementare: elettricità+acqua= no buono.
Corro al piano di sopra a
spegnere il pc.
Il frigo e la lavatrice sono completamente immersi e in
corrente, e io non posso arrivare alle prese se non guadando. E non riesco a
mettere a fuoco dove diavolo sia l’interruttore generale della luce.
Qual è il numero del
pronto intervento? Il 911? No, ho visto troppi film americani… ah è il 999… provo,
la linea sembra tornata, qualcuno mi risponde.
“GOOD AFTERNOON” (perché io sono
una personcina educata. Terrorizzata, ma educata)
“MY-KITCHEN-UNDER-WATER”,
sono le uniche parole di senso compiuto che mi escono. L’operatrice mi dice
qualcosa che ovviamente non capisco, dopo una serie di sorry, sorry, intuisco che
vuole l’indirizzo, ho un attimo di crollo quando mi chiede di farle lo
spelling… no, lo spelling no, ti prego! B…B…BRAVO…E…ECO…N…N…NOVEMBER, menomale
che il nome della mia strada è breve…
“Stiamo ricevendo tantissime chiamate dalla sua zona e abbiamo tutte le
squadre impegnate…” “Che devo fare? Io non so che devo fare!”supplico. L’acqua
è circa venti centimetri, “Metta degli
asciugamani”, già fatto cara, ho tutto il corredo bagno che fluttua.
Per la
verità c’è parecchia roba che fluttua, tappetini, i contenitori dell’immondizia,
il cesto con le verdure, tutti in giro a galleggiare, come suppellettili di una
nave che affonda.
“Capitano! Imbarchiamo acqua dalla stiva!!!” avrei
tanto voluto recitare la parte dell’ufficiale/eroe nei film catastrofici (quello che
prevede il pericolo ma nessuno lo ascolta a causa del suo passato da alcolista
o di problemi personali, che altrimenti il film non va avanti), purtroppo non
c’è nessun capitano che prenda una decisione, nessuno a cui rivolgermi, nessuno…
In fondo non sono in
pericolo di vita, la porta è libera e anche se fuori diluvia io posso comunque uscire.
Cerco di calmarmi, inutilmente, infilo l’impermeabile di Danilo, tre volte la
mia taglia, sudo, cammino avanti e indietro, penso all’elettricità e agli
strani rumori metallici che sento, cigolii e stridore come di motorini sotto
sforzo, sempre più forti, sempre più sinistri, penso a corti circuiti, incendi,
crolli… e MORIREEEEMOTUUUUTTIIIIII!
L’acqua nera supera il primo gradino.
Riesco a comunicare con
Danilo, bloccato nel traffico impazzito, mi indica dov’è l’interruttore
generale, che in pratica sta quasi sotto al soffitto (grazie, eh… magari un
posto un po’ più accessibile?) mi arrampico sullo scaletto che prima ho tirato
via dal sottoscala per salvarlo dall’acqua, insieme al cesto della biancheria
sporca, ma non mi chiedete perché ho salvato solo queste due cose perché non lo so… stacco
finalmente la corrente.
Lo stridore finisce.
Pian
piano anche il rumore esterno cala, la pioggia smette.
Infilo gli stivali e corro a comprare un paio di secchi per tirar
via “il lago” dalla cucina. Il tutto è durato una mezz'oretta, non di più. Un
vero “Flash” flood.
Fuori, atmosfera post-diluvio
universale, dietro l’angolo di casa si è formato un enorme lago, polizia e vigili
del fuoco, nastri segnaletici a chiudere la mia strada, traffico interrotto,
autobus impantanati, la gente si aggira fradicia e smarrita: “Umbelievable!”; ci
scambiamo parole di stupore e conforto tra vicini, volevo dire che la mia
cucina era “completely flooded” (allagata), e mi esce “completely floated”, completamente “galleggiata”, beh…
sempre di acqua si tratta, no?
Ritorna il sole, fa quasi
caldo. Trascorro le successive tre ore a tirar via acqua, strizzo gli
asciugamani nei secchi e li svuoto nel tombino fuori casa.
Intanto arriva Danilo,
a sera inoltrata si fa la conta dei danni, abbiamo la lavatrice fuori uso
(dovremo cambiare il motore) ma il frigo è salvo. Perdiamo tappetini e alcuni
oggetti ma niente di grave.
Siamo stati fortunati, un nostro amico è stato
spostato in un albergo e per parecchio non potrà rientrare in casa.
Scoprirò che l’alluvione
è stato talmente circoscritto da interessare solo il mio quartiere.
Mi sorge un dubbio: a causa
di una consegna a brevissimo che il cliente non aveva voluto spostare, il
giorno prima avevo scritto alla mia agente che mi auguravo almeno brutto tempo
nel weekend dovendo restare chiusa in casa a disegnare.
mi
mancano le bollette gonfiate da imposte e contributi, mi manca il tuo
linguaggio oscuro, le scritte piccole piccole in fondo ai documenti, le file
agli uffici, le giornate di lavoro perse.
Mi manca l’Iva, la ritenuta
d’acconto e soprattutto le marche da
bollo.
Mi manca l’acconto Irpef su presunti futuri guadagni,e
quelle inconfondibili buste con una scritta bianca su campo azzurro: CARTELLA DI
PAGAMENTO.
Quanta nostalgia del
furto d’identità che mi ha fatto trascorrere in allegria un paio d’anni tra
denunce e plichi di fotocopie, da te a me, da me all’avvocato e dall’avvocato a
te (tutte in bollo, s’intende…)
Dove vivo ora è tutto
tristemente normale…
Qui non conoscono la sofferenza necessaria al
raggiungimento dello scopo, gli inglesi non sanno che quelli che credono i propri “diritti”
sono in realtà benevole elargizioni dall’alto, incerte, come la grazia di una divinità. Tu me lo hai insegnato: la
grazia richiede preghiera, sacrificio, dedizione (e qualche volta una
mazzetta), non puoi ottenerla senza sforzo.
Che valore daranno queste persone a
cose come pagamenti, assunzione di personale, avvio di un’attività in proprio,
certificati, rimborsi, se la loro realizzazione non viene continuamente
ostacolata, dilazionata, allontanata nel tempo? Come faranno ad apprezzarle
davvero?
Ti racconto una cosa scandalosa:
dopo la mia prima dichiarazione dei redditi in UK avevo diritto ad un rimborso
e… mi è arrivato! Dopo 10 giorni
dalla domanda! E direttamente sul mio conto!
Eh, sì, la tua collega Britannica se la sbriga con un click. Che stolta! Non
capisce che così si perde tutta la suspense (arriveranno? non arriveranno?), non
ha imparato niente dell’animo umano: Se tu fai passare almeno un paio d’anni (come
minimo), il destinatario non conterà più su quel danaro, così quando finalmente
arriverà sarà una sorpresa! Una festa!
Ricordo i bei tempi in
cui mi rendevi tutto più difficile e prezioso.
Mica mandavi i soldi sul conto?
Tu volevi che li toccassi con mano, volevi che io assaporassi la concretezza di
quel dono, che mi prendessi una giornata di festa, e così mi mandavi una
letterina a casa che mi intimava di recarmi (io, solo io, personalmente io) a
fare una bella fila in un ufficio postale, entro e non oltre una certa data,
per vergare di mio pugno la quietanza, e se io non ci fossi riuscita per
qualche motivo, te li saresti ripresi! Così non avrei mai potuto dimenticare il
regalo che mi facevi restituendomi i MIEI soldi.
Negli ultimi tempi devi
aver capito che sentivo la tua mancanza, e così mi hai fatto una sorpresa: ora
che ho la residenza inglese, quei pochi italiani rimasti che vorrebbero pagarmi
non lo fanno, perché tu gli hai detto di non fidarsi. Gli hai detto di non
credere che io pago le tasse in UK.
Non basta un’autocertificazione,
l’iscrizione all’AIRE, il certificato di residenza, l’UTR, troppo facile!
Quella
scema di BB (Burocrazia Britannica) ha un form online che mi permette gratuitamente in una ventina di giorni
di ottenere un certificato di residenza
fiscale, ma lei è stupida si sa, non sa che tu lo fai per il mio bene.
Perciò hai suggerito in un orecchio a qualcuno dei miei editori di non fidarsi
nemmeno di questo!
Ed ecco documenti da compilare a mano in bella calligrafia e
spedire in giro per l’Europa, magari sigillati con la ceralacca, per stare ancora
molti, molti mesi a pensare l’una all’altra.
Ed io ti penso sai, non
hai idea di quanto ti penso!
Ti dedico un antico
auspicio: Puozze passa’ nu guaio,
che in lingua celtica vuol dire “che tu
possa attraversare la sofferenza e purificarti.”
Una imperdibile
conferenza al South Bank Centre dal titolo: In conversation with Oliver Jeffers& Quentin Blake, praticamente il Paolo Nutini e il Paul McCartney dell’illustrazione, forse
il paragone non è calzante ma, insomma, due vere Star.
Sir Quentin Blake (sì,
Sir, perché qui, i grandi illustratori li fanno cavalieri…) nato nel 1932, ha
cominciato negli anni ’50 e illustrato tutto l’illustrabile, dai racconti di Roald Dahl fino al recente ciclo di grandi pareti per vari ospedali, ha ricevuto
profluvi di premi ed infine ha collaborato alla fondazione di The House of Illustration , grande museo dedicato all’illustrazione che ha aperto da pochi
mesi a Londra.
A lui la mia gratitudine, ammirazione e massimo rispetto.
Oliver Jeffers, classe 1977 (un pargoletto al
confronto, infatti era piuttosto emozionato…), nato in Australia, cresciuto in
Irlanda, attualmente di base a New York, ha spopolato negli ultimi anni con
vere delizie per gli occhi come The Incredibile Book Eating Boy, How to Catch a Star e vari altri, ha anche collaborato
al video degli U2 Ordinary Love.
Dal suo bellissimo Lost and Found è stato tratto anche un cartoon di cui questo è il trailer.
INGREDIENTI
Taccuino per prendere
appunti.
Telefonino per
registrare.
Sforzo, concentrazione e
buona volontà per capire tutto nonostante il mio inglese (sono sicura che ne
uscirà un ottimo post in cui potrò rivelare i segreti dei grandi illustratori e
dire: io c’ero!)
COSTO
10£ (più trasporto). Considerando
che praticamente spendo 5£ per artista, è un’occasione.
PROCEDIMENTO
Sedersi buona buona al
tuo posto in decimillesima fila dell’immensa Queen Elizabeth Hall e scoprire
che:
1) Hai il taccuino ma non
la penna. I tuoi amici sono sparsi in altre zone della sala e la tua vicina di
posto non ha una penna in più.
2) la batteria del
telefonino non è abbastanza carica per registrare.
3) Cosa più importante, hai
dimenticato gli occhiali per la miopia che ti ha colto negli ultimi anni
(perché sei anziana e non vuoi prenderne atto).
RISULTATO
C'erano due persone
(più la moderatrice) dai contorni sfocati e sbrilluccicanti sotto le luci, che
se incontrassi domani sotto casa non riconosceresti, che parlavano di cose che
non hai capito bene.
Hai afferrato che:
uno dei miti di Quentin
Blake è Honoré Daumier,
tra i preferiti di Oliver
Jeffers c’è anche Charles Shultz (quello di Charlie Brown, abbiamo una cosa in
comune!),
tutti e due hanno uno
studio magnifico e invidiabile,
praticamente non usano il
computer (sic…)
hanno un ottimo rapporto
con gli editori (e volevo vedere che dicevano il contrario…).
Tutto qui.
Ah, c’erano anche una
serie di immagini, avvolte nella nebbia.
Sei la schifezza, della
schifezza, della schifezza di tutti i bloggers (o blogger, visto che scrivo in
italiano…mah…).
Se volete un vero resoconto andate qui: oppure qui
C’era una volta un re che
un migliaio di anni fa regnò meno di un anno, durante il quale non fece altro
che correre da una parte all’altra per difendersi da invasori, finché non morì
con una freccia infilata in un occhio.
Forse se fosse stato italiano sarebbe
solo un nome nei libri di storia, qui gli dedicano attenzione, dibattiti,
celebrazioni.
Perché questo è il Paese
delle Rievocazioni: una tenace passione per la memoria che non posso non
ammirare visto che vengo dal Paese
dell’Oblìo.
E dunque anche un re un
pochino “sfigato” come Harold II
d’Inghilterra (1022-1066) ha fans sparsi per il mondo, gruppi di
estimatori, libri dedicati e comitati come quello che l’ 11 Ottobre, a Waltham Abbey,
cittadina dell’Essex, ha celebrato,
come ogni anno, il King Harold Day,
un festival in memoria del re, con danze, musiche, giochi e accampamenti
medievali.
Ci sono stata e mi sono
molto divertita, ho visto suonatrici di ghironda
e pipes, arcieri e cavalieri, guerrieriche mi hanno fatto portare la loro spada, impavide falconiere, e volti antichi che non dimentico. Queste sono
alcune foto.
La storia di Harold mi ha
colpita, se avete pazienza vorrei raccontarvela (a modo mio, ovviamente).
Harold, Conte di Wessex, era cognato del Re d’Inghilterra Edoardo il Confessore (perché Confessore non lo
so, ma che pretendete? I documentari sono in inglese, non è che capisca tutto…)
il quale non aveva figli e quindi niente eredi diretti al trono. Come un
anziano zio ricco circondato da parenti ossequiosi che ambiscono all’eredità,
Edoardo doveva essere assediato a corte da possibili pretendenti (c’era in
ballo un trono, mica un frutteto in campagna!)
e secondo me se la godeva promettendo più o meno velatamente la
successione ora all’uno ora all’altro.
Uno che alla promessa ci
aveva creduto era Guglielmo di Normandia
(conosciuto prima come Gugliemo il
Bastardo, poi Guglielmo il
Conquistatore, un bel salto di qualità nel soprannome), ed era tanto
convinto che per evitare rivali un bel giorno aveva ordinato cavaliere proprio
il nostro Harold (che su quel trono ci aveva fatto più di un pensierino),
facendosi promettere solennemente fedeltà e appoggio alla futura candidatura. Harold
aveva promesso, pare (tenendo le dita incrociate dietro la schiena).
Poi il re si ammalò
rimanendo parecchio tempo senza conoscenza. E qui arriva il primo colpo di
scena: poche ore prima di morire Edoardo si risveglia e nomina Haroldsuo erede (le cronache non sono concordi, ma in questa storia non sono
concordi su niente). Il Wiltan, l’assemblea
di nobili del regno,si riunisce per prendere una decisione e il 6 gennaio 1066 incorona Harold II Re d’Inghilterra. Immaginate
la faccia di Guglielmo.
Dunque il nostro Harold
diventa Re: cerimonia di rito, saluti e baci, visita agli appartamenti, come mi sta la corona? Dovrò far
ritappezzare il trono… Ha appena il
tempo di sistemarsi che gli arriva la notizia: Guglielmo gli ha dichiarato
guerra per aver usurpato il trono e rotto il patto di alleanza, e sta
cominciando a radunare le truppe nel nord
della Francia.
Harold non ne avrebbe
molta voglia, ma raduna un esercito e lo aspetta nel sud dell’Inghilterra. Passano molti mesi, e forse a causa dei venti
sfavorevoli, l’attacco non arriva.
Finite le provviste, l’8 settembre il nostro re deve sciogliere le truppe (ragazzi, abbiate pazienza, abbiamo
scherzato…) e tornarsene a Londra.
Si toglie l’armatura, si
mette in vestaglia e pantofole e sta per sprofondare nel suo trono col
telecomando in mano che arriva un’altra notizia: Harald III di Norvegia (Harold, Harald…eh, lo so…) gli ha
dichiarato guerra affermando di essere il legittimo erede al trono (un altro?!)
per un antico patto che avevano stretto suo nonno e il nonno di Edoardo.
Sì, ora tirate fuori i nonni, ma non vi pare
di stare esagerando?
Rimettiamoci le scarpe e
andiamo a radunare un esercito. Chi vuole
venire con me? Un coro di: Buuu,
buuu… comunque per strada qualcuno riesce a raggranellarlo.
Il 24 settembre i due eserciti si
scontrano a York, vittoria
schiacciante di Harold.
Harald di Norvegia muore in battaglia.
Bene, fuori uno:
sciogliamo le truppe e rientriamo a casa. Ma neanche a pensarci! Nuova notizia:
Il 27 settembre Guglielmo è sbarcato
ad Hastings e conquistato la
cittadina.
Ragazzi… ehm… ci sarebbe una
nuova battaglia, chi si offre volontario? Le cronache non riportano le
risposte ma potete immaginarle. Dai su,
un piccolo sforzo, reclutiamo tutti, anche quelli un po’ scarsini, insomma,
facciamo numero.
E sbrighiamoci che Guglielmo avanza
.
È così che il 14 ottobre 1066 si combatte una delle
più famose battaglie medievali, quella di Hastings,
riportata come su un lunghissimo, meraviglioso fumetto, nel celebre Arazzo di Bayeux.
In campo abbiamo: da una
parte l’esercito sassone guidato dal
nostro Harold, formato essenzialmente dal popolo, non perfettamente armato, e
un tantino stanco per la lunga marcia, tutti fanti, riconoscibile dall’aria del
“chi me l’ha fatto fare”.
Dall’altra l’esercito francese di Guglielmo, formato
dal popolo e dalla nobiltà: arcieri in prima fila, poi fanti e infine …tadaan!
La cavalleria pesante! Riconoscibile dall’aria del “ti spiezzo in due”.
Comunque Harold non
dispera. Si piazza su una collina difficile da espugnare per la cavalleria.
Parte il primo attacco degli arcieri normanni: una pioggia di frecce, ma i
sassoni non fanno una piega, saranno pure stanchi ma scemi no, creano un muro di
scudi e non si muovono di un millimetro.
Uno a zero per Harold.
Le truppe normanne si allargano nel tentativo
di accerchiare il nemico ma la salita è impervia e parte il contrattacco: un gruppo di sassoni prende di mira l’ala bretone dei normanni, che si
spaventa e indietreggia, in più si diffonde la falsa notizia che Guglielmo sia morto ed è il panico, i
normanni sono nel caos.
Ma ecco il nuovo colpo di scena splendidamente illustrato nell’Arazzo di Bayeux: Guglielmo si toglie l’elmo per farsi riconoscere e grida a squarciagola “Guardatemi, sono vivo!”, le truppe si rianimano ma sono ancora in grande difficoltà. Finchè i sassoni restano sulla collina la cavalleria non riuscirà a raggiungerli.
Allora
Guglielmo ha un’ideona: avendo osservato il gruppetto dell’esercito nemico
piuttosto smanioso di inseguimenti, crea una finta ritirata ed ottiene l’effetto desiderato, il gruppo scende
dalla collina per inseguire i normanni e le prende di santa ragione, il resto
dell’esercito sassone cerca di aiutare l’ala in difficoltà e quindi scende a
sua volta.
La cavalleria aspettava
solo questo per attaccare, uno dei primi ad essere colpito è proprio Harold, una freccia nell’occhio, e tanto di
cadavere fatto a pezzi da Guglielmo in persona (non so che bisogno ci fosse di
essere splatter, ma è così…).
Vittoria schiacciante (e
direi massacrante) di Guglielmo, che il giorno di Natale 1066, viene incoronato Re
d’ Inghilterra, dando il via al dominio della dinastia Normanna.
Se
volete sapere qualcosa di serio su come sono andati i fatti, potete trovarlo
per esempio qui:
Noi italiani ci serviamo
abbondantemente dell’inglese per la comunicazione (perché se è inglese è
meglio), poi prendiamo i termini, li deformiamo, italianizziamo, ne facciamo ciò che
vogliamo, siamo imbattibili in questo.
Dalle mie parti vedevo spesso insegne di
negozi con scritte raccapriccianti, FASHION massacrato in tutti i modi: FASCION,
FASHON, FASCHION… (ho dovuto controllare prima di scriverlo, da quale
pulpito…), qualche BIUTIFUL (tra i parrucchieri andava parecchio), nonché un
INTERNASCIONAL.
Pensavo che fosse un
problema solo nostro ma devo dire che anche qui non se la cavano male. “Se è
italiano è meglio” vale a volte per la moda, più spesso per il cibo.
Qualche locale fa i
panini all’italiana. Ma dovete chiedere un PANINI (singolare), o più PANINIS
(plurale).
Spesso vedo il Cappuccino trasformarsi in CAPUCHINO e una volta mi
sono imbattuta in un ITALIAN COTTECHINO, ma era un errore di trascrizione.
Colleziono volentieri
menu di ristoranti e pizzerie d’asporto, capolavori di ingegno linguistico.
Su
questo menu compare un ricercatissimo (dicono) piatto tradizionale italiano: ANTI
(staccato) PASTI AND BOCHACINNI… sarebbe? Antipasto di verdure con Bocconcini di mozzarella.
Ma se volete, a pagina dopo c’è anche la
BOLOGNAISE, non so se consigliarvela però, si è “inglesizzata” per strada.
Sono
rimasta molto colpita da questo MILANO PIZZA (che è come dire: Napoli
Panettone, o Napoli Cassoeula. La cucina lombarda vanta grandi specialità, ma forse
la pizza non è proprio la punta di diamante…), garantita 100% Halal, scritto in arabo perchè sia comprensibile (e allora
siamo sicuri che la cucina è italiana…).
Le foto, per un’amante della pizza,
quella vera, sono un susseguirsi di
colpi al cuore (e allo stomaco). Una gigantesca “cosa” guarnita da serie di
involtini al formaggio (che, all’emigrante nostalgico e confuso, a prima vista
sembrano babà alla crema).
Ben 33 varietà di pizza con gli ingredienti più disparati,
dal Pollo Tandoori o Barbecue, alla Doner (italianissimi!).
Segnalo
la n°31: SICILANA (senza la L) e la 32: VERDUE (senza la R).
In questo “Italian Base
Pizzas” (una PIZZA, più PIZZAS), trovo nomi familiari come CAPRICCIOSA, QUATTRO
FORMAGGI, condita con Buffalo Mozzarella (che è mozzarella di bufala come io
sono la Duchessa di York ) e Feta greca…
(che per altro,sarà ottima); la Quattro
Stagioni ha gli asparagi… ma, ognuno la pizza la fa come vuole, no?
Poi c’è la SUPREMEA (una E in più?) e subito
dopo la Napoletana c’è la PARMATTA, il cui nome mi lascia un po’ interdetta (scusate
la rima), che dentro ovviamente ha l’ANANAS, ingrediente tipico della cucina
parmense, parmigiana, PARMATTA, insomma…
Ricordate che sulla pizza
ci sono spesso PEPPERONI, che non sono peperoni (attenti, italici vegetariani,
non andate in confusione!), ma un salame piccante, se invece volete del salame
normale, dovete chiedere il SALAMI, un SALAMI, più SALAMIS.
A volte nella stessa pizza (in questo caso l’
Americana) potete trovare: Sausage (salsiccia), Salami (salame), Pepperoni with
chilli (salame piccante al peperoncino), e Peppers (peperoni).
E resterete sazi per due giorni, il tempo medio di digestione è infatti 48 ore, buona fortuna!
La Princesse et les Prétendants, Allez- Oxford University Press, particolare
L’ho incontrata ad
ottobre 2013, un anno fa, erano due mesi che la inseguivo via mail. Dopo più di
un anno di ricerca, e infiniti elenchi di nomi sottolineati, cerchiati,
depennati ...
Mi aveva inviato già la
bozza di contratto e si era detta entusiasta di rappresentarmi ma io ho
insistito per vederla da vicino, anche se c’era da aspettare.
Dovevo guardare in faccia
la persona nelle cui mani stavo mettendo il mio lavoro (e il mio futuro qui).
Dovevo dirle che se
affidavo l’esclusiva ad un’agente, volevo qualcuno disposto davvero a puntare su di me, non mi interessava essere
infilata in un calderone in attesa che mi si scovasse per caso, e non volevo
che mi si dicesse “ho importanti notizie
da comunicarti” per poi sparire nel nulla (come mi era già accaduto), avevo
già perso troppo tempo.
Dovevo dirle che dopo un
anno dal mio trasferimento, per sopravvivere facevo le pulizie, e se lei
credeva veramente a quello che mi aveva scritto: “You indeed are a very talented artist”, questo era il momento di
dimostrarmi che era in grado di procurarmi il lavoro per cui ho veramente
talento.
La mia esperienza come
cleaner mi aveva regalato tra le tante cose, una nuova determinazione, una
chiarezza d’intenti, insieme a un pizzico di: adesso ti faccio vedere chi sono, che a volte è molto utile ad una
come me, abituata fin troppo al basso profilo.
Piccolo particolare,
avrei dovuto dirglielo in inglese (sigh…).
Ci incontriamo al Circus
Cafè, zona est di Londra, un locale piccolo ma delizioso, con arredamento e
tappezzeria ricavati da oggetti di risulta, perfetto per me.
Bruna, snella, di quelle
donne eleganti naturalmente, anche senza trucco e con i capelli raccolti con
una matita, si chiama Sylvie ed ha un bellissimo accento che tradisce le origini francesi, poi scopro
che è anche un po’ italiana, per parte di padre. Guardiamo i miei disegni e
parliamo, parliamo per due ore delle nostre esperienze, della nostra storia, in
un pittoresco itanglish /franglish.
- E’ una
vergogna che tu non abbia ancora sfondato qui – Più che altro è una sfiga…
- Non voglio che tu tra un anno mi dica: mi sto
mantenendo facendo la cleaner – E
figurati io!
- Non posso darti certezze ma dobbiamo fare un piano d’azione – “action plan”, “strategy”, tesoro, hai appena
detto le parole magiche che speravo di sentire.
- Attaccheremo il mercato su più fronti.
Picturebooks di pregio (potrebbe servire anche un anno per trovare la commessa
giusta) e mercato commerciale, advertising, educational, che portano liquidità.
Sei abbastanza versatile per poterlo fare, se sei d’accordo – Se sono d’accordo??? Ma dimmi dove devo
firmare!
Forse l’ho trovata. Non
oso dirlo ai quattro venti ma torno a casa piena di speranza. Seguono una serie
di scambi di materiale e finalmente a dicembre 2013, il mio primo incarico.
Una piccola immagine per Allez una pubblicazione della Oxford University Press,
l’illustrazione di un racconto tradizionale del Mali per insegnare il francese
a ragazzi inglesi (quando si dice intercultura…).
“La Princesse et les Prétendants” una sorta di Turandot africana.
Ayawa, una principessa
troppo bella e fiera per accettare la corte dei numerosi nobili venuti da tutto
il globo per sposarla, indispettita e affaticata dal dover dire tanti NO,
decide di smettere di parlare.
Il padre disperato annuncia che qualunque
pretendente sia in grado di farle tornare la parola avrà la sua mano.
Ma l’impresa
sembra impossibile per chiunque.
Un giorno un mendicante, neanche tanto
attraente, si inginocchia davanti a lei, e senza dire una parola accende un
fuocherello e tenta di preparare un tè con un bollitore poggiato su due pietre.
Ovviamente il bollitore senza equilibrio cade, e cade più volte, ma lui con
pazienza ci riprova.
Ayawa resta in silenzio finché può, al quindicesimo
tentativo sbotta:- Ma insomma, mettici una
terza pietra, così non cade!!!
E così la principessa
sposa un mendicante, e vissero tutti felici e contenti? Io non credo, ma mi
diverte molto l’idea che per noi donne sia impossibile tacere quando vediamo
una cosa storta…
È una tavola piccolissima,
12cm x 5, non certo un capolavoro, ma io le sono molto affezionata. Per me questa
era la chiusura di un cerchio e un nuovo inizio.
Il mio primissimo schizzo
in terra anglosassone, era il ritratto di una donna nera incontrata in metro, lo
avevo chiamato “Principessa Africana”, forse era lei, Ayala, venuta a portarmi
fortuna…
Grazie ad uno strano incrocio di lingue, origini, energie, per buona
parte femminili, potevo finalmente dire: I’m
a London based illustrator.